In Italia, prendere ai ricchi per dare ai poveri… sembra facile!
Uno dei pochi pregi della crisi pandemica è stato quello di far porre l’attenzione di governi e parlamenti, spesso più sensibili agli interessi delle lobby e – soprattutto negli Stati Uniti – dei finanziatori delle loro campagne elettorali, il tema dell’intollerabile aumento delle disuguaglianze economiche e sociali e dell’urgenza della sua riduzione, un aumento che è iniziato oltre quarant’anni fa e cui hanno dedicato il loro studio economisti come Anthony Barnes Atkinson e Thomas Piketty.
Il problema è oggi passare dalle parole ai fatti, superando i pilastri neoliberisti su cui oggi poggiano le maggiori economie mondiali. In un precedente post ci chiedevamo se si sarebbero riusciti a ottenere in un prossimo futuro risultati, anche minimi, nella ridistribuzione della ricchezza e nell’aumento della tassazione dei super ricchi, oppure sarebbe prevalso il ritorno alla normalità, con un ulteriore effetto regressivo nella distribuzione della ricchezza.
Qui indichiamo quale appare essere la risposta di governo nelle attività poste in essere in questi mesi per contrastare l’accresciuta disuguaglianza… e il risultato non è affatto incoraggiante.
In Italia
Secondo il recente Rapporto mondiale sulla disuguaglianza 2022 (World Inequality Report 2022), in Italia l’1% della popolazione detiene il 18,0% della ricchezza del Paese e il 10% più ricco ha un reddito medio otto volte maggiore di quello del 50% meno abbiente. Con la crisi sanitaria ed economica le disuguaglianze sono ulteriormente aumentate: se nel 2020 il patrimonio dei quaranta miliardari italiani ammontava a 182 miliardi di dollari, nel 2021 i miliardari sono diventati quarantanove con un patrimonio complessivo di ben 211 miliardi.
Una riforma fiscale che riduca le disuguaglianze e persegua una più equa redistribuzione dei redditi ha diverse opzioni. Tralasciando misure più strutturali, ma non all’ordine del giorno, come intervenire sul divario retributivo fra generazioni e generi (i giovani tra i 25 e i 29 anni, spesso lavoratori precari o a impiego intermittente, guadagnano mediamente la metà di un cinquantacinquenne, mentre le lavoratrici, spesso soggette a part-time involontario, sono retribuite mediamente settemila euro annue meno dei colleghi maschi); l’introduzione di un reddito di base universale e incondizionato che comporterebbe il passaggio di ruolo dallo Stato assistenziale a quello emancipativo, o una rimodulazione dei coefficienti di trasformazione che concorrono al calcolo della pensione e che, secondo un recente studio, favoriscono i redditi più alti, rimane verosimilmente percorribile solo la strada della leva fiscale, a sua volta perseguibile imboccando diverse direzioni:
- una tassazione, anche solo una tantum, sulle grandi ricchezze (la famigerata patrimoniale);
- l’aumento del prelievo fiscale agendo sulla progressività nelle aliquote dell’imposta sulle successioni e donazioni;
- un deciso aumento nella progressività del prelievo fiscale, che lo riduca per la maggior parte della popolazione e lo aumenti sensibilmente per i ricchi e i super ricchi.
Il tabù della patrimoniale
Nonostante i sondaggi – per quello che valgono – dicano che due terzi degli italiani sarebbero favorevoli all’introduzione di un'imposta patrimoniale, quando si passa dalle parole ai fatti le cose cambiano. Perché?
L’80% delle famiglie italiane vive in un’abitazione di proprietà e il loro risparmio in depositi bancari ammonta a più di 1.130 miliardi di euro, una cifra che – comprendendo i 390 miliardi di depositi delle aziende – corrisponde a più della metà del debito pubblico italiano (2.700). La maggior parte degli italiani quindi teme che un’imposta sulla ricchezza possa colpire anche il loro patrimonio, nonostante quasi tutte le patrimoniali proposte salvaguardino la ricchezza dei ceti a reddito medio-basso e concentrino il prelievo soprattutto sulle grandi ricchezze.
Così non è stata sostenuta la proposta di Sinistra Italiana di una legge di iniziativa popolare (Next Generation Tax) che prevede una patrimoniale, nonostante la forte progressività delle aliquote e il fatto che l’imposta non riguardasse i piccoli proprietari di case (il valore dell’immobile era quello catastale, assai inferiore a quello reale, e contestualmente venivano abolite tutte le mini patrimoniali in vigore, come IMU, TASI, imposta di registro, bolli): la raccolta firme, lanciata a giugno di quest’anno e dal 29 ottobre scorso possibile anche online, non sembra a oggi aver raccolto le cinquantamila firme necessarie.
Stesso esito ha avuto la petizione lanciata a dicembre 2020 dal Fatto quotidiano che ha raccolto solo 78 mila adesioni, rispetto all’obiettivo minimo di 150 mila.
Recentemente un gruppo di accademici di Torino ha lanciato una proposta, finora inascoltata dal governo, di una modesta imposta di scopo (al fine di assumere stabilmente un milione di giovani) sulla ricchezza finanziaria degli italiani, quindi escludendo la casa e le proprietà immobiliari: tassando i conti correnti bancari per tre anni con una aliquota progressiva (dallo 0,023% allo 0,73%) e un’esenzione per le famiglie con una ricchezza finanziaria inferiore a 143 mila euro, cioè circa la metà dei nuclei familiari, l’imposta potrebbe fruttare dai 15 ai 20 miliardi l'anno, sufficienti per la pubblica amministrazione per assumere un milione di giovani con una retribuzione, al lordo dei contributi, ma al netto delle ritenute fiscali, di milleduecento euro per 13 mensilità.
La tassazione dell’eredità
L’imposta di successione e donazione è stata introdotta dal Governo Prodi nel 2006: prevede, nel caso più frequente di trasmissione a coniuge o figli/e, una franchigia (esenzione) di un milione di euro e un’aliquota fissa del 4%.
Il figlio di un imprenditore che eredita dal padre un’attività commerciale del valore di tre milioni paga al fisco 80 mila euro (cioè il 4% della cifra eccedente il milione); mentre il figlio del proprietario della più grande industria dolciaria italiana paga al fisco un miliardo e trecento milioni di euro, ma eredita un patrimonio netto di oltre 31 miliardi. Le due cifre versate al fisco sono assai diverse, ma il prelievo fiscale è percentualmente identico: non c’è alcun effetto redistributivo, non essendoci una progressività delle aliquote, e la distanza fra i due patrimoni rimane la stessa di prima.
In un’intervista al Corriere della Sera del maggio scorso, il segretario del Partito Democratico, Enrico Letta, ha proposto di introdurre un correttivo alla legge, inserendo un’aliquota del 20% sui patrimoni eccedenti i cinque milioni, lasciando al 4% l’aliquota sui patrimoni sotto questo limite. Letta ha anche proposto di destinare l’aumento delle entrate a un fondo per la “dote dei giovani al compimento dei 18 anni”. Nella sua proposta Letta si è ispirato all’economista britannico Anthony Atkinson che nel suo libro “Disuguaglianza. Che cosa si può fare” proponeva una “dotazione di capitale” assegnata a tutti all’ingresso nell’età adulta, da finanziare attraverso una “imposta sugli introiti da capitale”.
La proposta è stata sbrigativamente liquidata dal presidente Draghi (“non è il momento di prendere i soldi ai cittadini ma di darli”) e criticata anche dalla ministra per la gioventù Fabiana Dadone: “Non capisco il motivo che porta ad associare due discorsi totalmente distanti tra loro: da una parte quello della fiscalità generale e dall’altra le strategia a supporto dei giovani”.
In effetti la proposta Letta, non è mai stata verosimile sia perché la dote per i giovani non era mai entrata nel dibattito politico italiano, sia per l'assenza di una giusta progressione delle aliquote sui patrimoni ( la riduzione della disuguaglianza attraverso la progressività riguarda solo gli eredi di un patrimonio inferiore ai cinque milioni, mentre nulla cambia tra chi eredita sei milioni e chi ne eredita sei miliardi che pagano un’aliquota superiore al passato, ma uguale per tutti) sia perché - appunto fatto a suo tempo anche all’economista britannico - destinare le entrate derivanti dall’imposta di successione alla dotazione per i giovani viola il principio di unità di bilancio che vieta di creare dei collegamenti tra il gettito di uno specifico tributo e una specifica spesa.
Il risultato è che la proposta è stata accantonata e si è persa l’occasione per intervenire sui difetti della legge esistente.
La riforma fiscale
L’imposizione fiscale può essere uno strumento, seppure indiretto, di distribuzione del reddito, se si aumentano le aliquote degli scaglioni di reddito più alti e si abbassano quelle degli scaglioni per i redditi più bassi oppure si aumenta l’esenzione per la soglia di reddito minimo, la cosiddetta No Tax Area. Quindi una riforma del sistema fiscale può contribuire a ridurre le disuguaglianze economiche e sociali, ma in Italia i passi fin qui fatti sembrano andare in direzione opposta.
Il disegno di legge delega per la revisione del sistema fiscale - predisposto dal Ministro dell’Economia, Daniele Franco, e approvato dal governo a ottobre – nel fissarne i criteri principali, si pone come obiettivo prioritario quello di stimolare la “crescita economica attraverso una maggiore efficienza della struttura delle imposte e la riduzione del carico fiscale sui fattori di produzione”. Fra questi fattori, solo il capitale e il lavoro sono direttamente tassabili e la riduzione riguarda soprattutto il primo dei due fattori. Sembra che la riforma segua quel (mai provato) assioma del neoliberismo che è il trickle-down (“sgocciolamento verso il basso”) secondo cui un alleggerimento dell'imposizione fiscale per i più abbienti porta necessariamente vantaggi all'intera società, compresi il ceto medio e i più poveri.
L’unico provvedimento a favore dei lavoratori sembra essere “la riduzione delle aliquote effettive che si applicano ai redditi da lavoro”, ma – come al solito – il diavolo si nasconde nei dettagli, in questo caso nella parola “effettive” che somma la tassazione esplicita, quella nominale (del 27% e del 38% per gli scaglioni intermedi e del 43% per quello massimo) a quella implicita (risultante da contributi e detrazioni varie) che non è esplicitamente stabilita, ma generata da un gioco di soglie di reddito in entrata o di uscita. Un esempio chiarificatore è il contributo degli 80 euro mensili, integrato da luglio di 20 euro per il taglio del cuneo fiscale che spettano ai redditi fino a 40mila euro: quando si superano i 35 mila euro, si perdono i 20 euro e si riduce gradualmente - fino ad azzerarsi – il precedente bonus di 80 euro. Dipenderà da come si interverrà sull’aliquota implicita, per vedere quali fasce di reddito saranno avvantaggiate e quali eventualmente danneggiate: per esempio, se si sostituiranno tutte le detrazioni con una cifra uguale per tutte le fasce di reddito, saranno quelli medio-alti a ottenere vantaggi fiscali rispetto a quelli medio-bassi.
Sempre a favore delle imprese, tanto che il documento sembra redatto dal centro studi di Confindustria invece che dal governo, ci sono:
- l’equiparazione dell’aliquota dell’imposta sui redditi della società (IRES) a quella sui redditi da capitale che congiuntamente a ridurre gli adempimenti a carico delle imprese",otterrebbe una riduzione del 4% della tassazione sui redditi delle stesse;
- la graduale eliminazione dell’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP), tanto invisa agli imprenditori, che però funge da incentivo a ridurre il ricorso al lavoro precario, visto che i costi per il personale a tempo indeterminato o stagionale stabilizzato sono integralmente detraibili dall’imponibile d’imposta.
Parte delle misure previste nella legge delega sulla riforma fiscale sono state inserite nella legge di bilancio 2022, approvata in prima lettura dal Senato il 23 dicembre scorso e definitivamente dalla Camera il 30 dicembre, dopo che il governo aveva posto la fiducia su un maxi emendamento che inseriva modifiche al testo. La decisione più importante riguarda la ripartizione degli otto miliardi di sgravi fiscali: sette saranno destinata a ridurre il prelievo effettivo sui redditi riformando le aliquote IRPEF e uno invece assegnato al taglio dell’IRAP. l’imposta sulle attività produttive, per i lavoratori autonomi e le ditte individuali.
I sette miliardi di riduzione della pressione fiscale sui redditi riguarda sia la riforma delle aliquote IRPEF e che delle detrazioni e bonus fiscali. Le aliquote passano da cinque (23% - 27% - 38% - 41% - 43%) a quattro (23% - 25% - 35% - 43%), lasciando invariate le aliquote minima e massima e accorpando i redditi da 50mila euro in su all’aliquota massima. Nonostante questi ultimi redditi sembrino i più colpiti, in realtà saranno i più avvantaggiati, in quanto pagheranno l’aliquota massima solo per la quota di reddito eccedente i 50mila euro, mentre godranno delle riduzioni delle aliquote dei due scaglioni precedenti. Si è infatti calcolato che i contribuenti con redditi fra i 35 e i 75 mila euro (che rappresentano circa il dieci per cento del totale) riceveranno il 57 per cento del risparmio d’imposta mentre i contribuenti con più di 75 mila euro (che sono invece appena il 2,5 per cento dei dichiaranti) si spartiranno il 22 per cento del risparmio d'imposta. Come ha ironicamente sintetizzato il responsabile economico di Sinistra Italiana Giovanni Paglia, “il governo Draghi offre una pizza agli operai e una cena stellata ai manager”.
E per non fare mancare anche il dessert ai manager, è stata bocciata in Consiglio dei Ministri la proposta del presidente Draghi di sospendere per un anno il taglio delle imposte per i redditi oltre 75mila euro, ovvero un “contributo di solidarietà” che avrebbe liberato risorse per alleviare il caro bollette per le famiglie con reddito più basso e si è tolto il tetto di 25mila euro di reddito ISEE per poter usufruire del superbonus edilizio, consentendo l’accesso al contributo per l'efficientamento energetico anche i proprietari di lussuose ville.
Valutata nel suo insieme, la manovra di 30 miliardi di euro sembra avere un effetto assai limitato sulla riduzione delle disuguaglianze, anche perché fortemente sbilanciata a favore delle imprese e a discapito dei redditi da lavoro.
L’opposizione dell’establishment a una maggiore tassazione del patrimonio dei più ricchi è ben sintetizzata in un post dell’economista di Italia Viva, Luigi Marattin, secondo cui la disuguaglianza esiste in tutti i sistemi economici e va combattuta solo quando diventa “eccessiva” perché “dannosa per la crescita economica”; ma l’eccesso di disuguaglianza non va ridotto “colpendo chi ha di più, per avvicinarli a coloro che hanno di meno”, bensì "ridistribuendo non necessariamente le risorse, ma le opportunità: cioè rimuovendo ogni ostacolo - per quanto possibile - alla realizzazione del concetto di pari opportunità” (…) “Pilastri di questo approccio sono l’investimento nel diritto allo studio e nella formazione professionale, e le politiche per la concorrenza”… Difficile trovare una migliore sintesi del pensiero neoliberista.
E dunque che fine hanno fatto (e faranno) i duecento e passa miliardi del PNRR che avrebbero dovuto trasformare l’Italia in una società più equa? A giudicare dalle prime scelte, come ricorda Alessandro Robecchi “tutti quei soldi, quegli investimenti, quel ’è il momento di dare’ che potevano cambiare il Paese, sono andati e stanno andando nella direzione di lasciarlo com’è. Dare qualcosa a quasi tutti, rafforzare qualche posizione cardine, smollare contentini, ma niente di strutturale, capace di cambiare in modo più egualitario il corpo sociale del Paese. Un’operazione di mantenimento dell’esistente, mediocre e troppo diseguale.
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