Questione palestinese: il ricatto dell’acqua
L’arma più subdola e vergognosa messa in opera da Israele per scoraggiare la resistenza palestinese e spingerne la popolazione a emigrare è prenderli per sete. Israele controlla la quasi totalità delle risorse idriche del territorio dal 1967, quando emanò alcune ordinanze militari tuttora in vigore per integrare il sistema idrico palestinese nel sistema israeliano. Nel 1982 Israele ha poi deciso di trasferire le infrastrutture idriche di proprietà palestinese in Cisgiordania alla compagnia israeliana Mekorot al prezzo simbolico di uno shekel (circa 500 lire di allora).
La Mekorot, la società idrica nazionale, capta le acque dal lago di Galilea nella Palestina settentrionale - le cui sponde sono interamente sotto controllo israeliano dal 1967 con la conquista delle Alture del Golan - e, grazie a una condotta lunga centotrenta chilometri (la National Water Carrier, HaMovil HaArtzi in ebraico) che attraversa l’intero Paese, rifornisce d’acqua le città, gli insediamenti e le terre coltivate degli israeliani, una minima parte delle risorse idriche viene distribuita anche in Giordania, mentre assai raramente Mekorot consente derivazioni verso le principali città palestinesi: nell’area C, sotto il pieno controllo israeliano, dove vivono centocinquantamila palestinesi, solo 16 villaggi su 180 sono collegati alla rete idrica di Mekorot. Spesso queste derivazioni sono danneggiate o distrutte dallo stesso gestore della condotta o dall’esercito israeliano; l’approvvigionamento dei villaggi arabi può essere interrotto durante le frequenti esercitazioni militari e, durante i mesi caldi, la pressione delle condotte palestinesi è ridotta di oltre la metà per privilegiare l’approvvigionamento dei coloni.
La drammatica situazione di Gaza
Paradossalmente il tratto finale della condotta gestita da Mekorot passa a poche centinaia di metri dal confine con la Striscia di Gaza per raggiungere l’insediamento di Mivtahim presso il confine egiziano, ma neppure una goccia d’acqua è concessa ai due milioni di abitanti della Striscia, dove l’acqua potabile è per molti un miraggio.
Il 97% dell’acqua a Gaza non è potabile e la responsabilità, secondo una recente dichiarazione congiunta di organizzazioni non governative alla 48a sessione del Consiglio dei Diritti Umani (HRC) risiede nel lungo blocco israeliano che ha causato un grave deterioramento della sicurezza idrica a Gaza.
Secondo Oxfam, sono 400mila – un quinto dell’intera popolazione – gli abitanti di Gaza che non hanno accesso ad acqua potabile (e neppure all’energia elettrica). Più di un quarto delle malattie infettive è causato dall’ingestione di acqua inquinata e contaminata: una situazione molto grave se si considera il precario sistema sanitario gazano, dove meno del due per cento degli abitanti è vaccinato contro il Covid-19.
Le falde freatiche, già sfruttate anche dai vicini impianti di captazione di Mekorot, sono insufficienti a fornire acqua a due milioni di abitanti; il livello delle falde è sceso sotto quello del mare, con conseguente infiltrazione di acqua marina e di acque reflue scaricate in mare. L’acqua estratta dai pozzi risulta quindi con un alto contenuto di salinità, oltre che contaminata da germi e batteri. Gli impianti di potabilizzazione (dissalatori e depuratori) lavorano a ritmo ridotto perché l’energia elettrica necessaria è distribuita solo poche ore al giorno e i generatori che potrebbero sopperire alla mancanza di elettricità nei servizi essenziali sono sottoutilizzati per la carenza di carburante. La mancanza dell’elettricità pubblica per gran parte del giorno impedisce inoltre il regolare funzionamento degli impianti di trattamento delle acque reflue, i cui liquami non trattati sono sversati direttamente in mare.
I bombardamenti aerei israeliani del maggio scorso hanno danneggiato anche le infrastrutture idriche, come impianti, stazioni di pompaggio e le condutture di distribuzione. L’embargo imposto da Israele impedisce l’importazione dei materiali (tubi di metallo, pezzi di ricambio, perfino cemento) necessari per le riparazioni, con la giustificazione che potrebbero essere utilizzati a fini militari.
In Cisgiordania, c’è chi ne ha in abbondanza (i coloni) e chi poca (i palestinesi)
Sin dall’inizio dell’occupazione israeliana della Cisgiordania nel 1967, la disponibilità d’acqua non copriva il fabbisogno di base per i palestinesi. Poi dal 1995 Israele ha sfruttato l’85% dell’acqua di superficie palestinese incanalandola verso gli insediamenti dei coloni sia in Cisgiordania che nel territorio di Israele. La stessa localizzazione delle colonie illegali israeliane in Cisgiordania è funzionale al controllo delle risorse idriche nella regione.
Il risultato di questa gestione fortemente politicizzata delle risorse idriche è una spaventosa disuguaglianza nell’accesso all’oro blu: la disponibilità giornaliera media pro capite pe famiglie ebree è di 300 litri, mentre quella di una famiglia palestinese è di 70 litri, ben al di sotto della soglia minima fissata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità che è di 100 litri pro capite. Inoltre in molti villaggi arabi non collegati alla rete Mekorot la disponibilità giornaliera pro capite scende ad appena 20 litri, forniti dalle cisterne che raccolgono la scarsa acqua piovana o dal rifornimento irregolare delle autocisterne. Le famiglie palestinesi più fortunate, collegate alla rete di distribuzione israeliana, pur ricevendo un servizio più scadente, pagano una bolletta quattro volte maggiore di quella di una famiglia ebrea vicina.
Molte famiglie palestinesi cercano di rifornirsi d’acqua dalle poche falde freatiche non captate dagli israeliani, ma l’esercito distrugge sistematicamente pozzi e cisterne – anche quelle costruite da organizzazioni umanitarie – perché prive del necessario (e sempre negato) permesso da parte dell’autorità occupante.
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