La scuola come tempo libero da dedicare a sé
Riceviamo da Massimo Marcolin e volentieri pubblichiamo
Il
25 novembre scorso il ministro della transizione Ecologica Roberto Cingolani
nel corso di un suo intervento al Tg2
Post ha sostenuto che
per garantire la svolta digitale ed ecologica in Italia “a noi serve più
cultura tecnica, a partire dalle scuole”: “Il problema è capire se continuiamo
a fare tre, quattro volte le guerre puniche nel corso di dodici anni di scuola”
ha detto “o se casomai le facciamo una volta sola, ma cominciamo a impartire un
tipo di formazione un po’ più avanzata, più moderna a cominciare dalle lingue,
dal digitale”.
Il
filologo Luciano
Canfora
gli ha ironicamente risposto: “il ministro, di cui ignoro l'appartenenza
politica, è un comunardo, cioè un seguace della Comune rivoluzionaria di Parigi
(del 1871) che nei 70 giorni scarsi di governo, propose una riforma della
scuola in cui si eliminava l'antichità e si sperava che ci si occupasse
soltanto di scienza tecnica e vicende contemporanee. Quindi è un estremista di
sinistra, bisogna avvisare Draghi che magari si allarma”.
L’esternazione
di Cingolani è solo l’ultimo dei tanti episodi di attacchi contro l’inutile cultura umanistica e di
sollecitazioni a trasformare la scuola in un percorso formativo per le figure
professionali richieste dalle imprese: dalle tre I (Inglese, Internet e
Impresa) della ministra Letizia Moratti alla unificazione delle ore dedicate a
storia e geografia nel calendario scolastico (assolutamente sensata, ma rivolta
solo a dimezzare le ore dedicate alle due materie); dall’alternanza
scuola-lavoro (spesso consistente nel fare fotocopie in un ufficio o
nell’imbustare patatine fritte in un fast
food) al miliardo e mezzo di euro del PNRR che il Presidente Draghi, nel
suo discorso programmatico alle Camere, intendeva assegnare agli Istituti
Tecnici Superiori (di cui - immagino - la maggior parte dei parlamentari non conoscesse
neppure l’esistenza), perché sfornassero sempre più lavoratori indispensabili,
circa “3 milioni nel quinquennio 2019-2023”.
Ogni
volta che leggo queste affermazioni mi viene in mente l’etimologia della parola
“scuola” che deriva dal greco skolé (σχολή), il cui significato è “tempo
libero” e che in latino ha una sua corrispondenza nella parola “otium”.
Oggi
nessuno assocerebbe la scuola al tempo libero (che per gli studenti è il tempo
non trascorso in aula o a fare i compiti) e l’ozio ha assunto un significato
quasi sempre negativo (i giovani che preferiscono il divano al cercare un
lavoro), ma per gli antichi il tempo libero aveva un significato assai diverso:
libero da impegni pubblici e privati, dedicato esclusivamente a sé stessi.
Tempo impiegato a osservare, pensare, leggere, scrivere, discutere, esprimersi
artisticamente… in estrema sintesi a nutrire la propria mente.
In
questa accezione, la scuola dovrebbe restituire, al termine del percorso
formativo, non già menti piene di nozioni, ma piene di domande e con un solo –
ma essenziale – strumento a disposizione: un metodo per cercare, non
necessariamente trovare, risposte alle tante domande. Un metodo per esplorare
il mondo, compreso quello interiore.
Lo ha scritto, assai più efficacemente di me, la filosofa ungherese Agnes Heller nel suo libretto-intervista Solo se sono libera: “se qualcuno dovesse chiedermi, come filosofa, che cosa si dovrebbe imparare al liceo, risponderei: ‘prima di tutto, solo cose “inutili”, greco antico, latino, matematica pura e filosofia. Tutto quello che è inutile nella vita’. Il bello è che così, all’età di 18 anni, si ha un bagaglio di sapere inutile con cui si può fare tutto. Mentre col sapere utile si possono fare solo piccole cose.”
Quando, secoli fa, frequentavo il liceo le mie materie preferite erano (nell'ordine): greco, filosofia, storia, latino e... matematica, ma quest'ultima solo perché il nostro professore non ci fece mai imparare l'enunciato di un solo teorema, ma ce lo dimostrava praticamente alla lavagna, per cui ciascuno di noi doveva costruirsi nella propria testa dimostrazione e, conseguentemente, l'enunciato (che, a questo punto, diventava nostro, non solo di Pitagora o di Euclide).
Perciò,
caro ministro Cingolani, conservi pure con cura la sua laurea in fisica, ma
torni a scuola, preferibilmente all’inutile
liceo classico, ma non quello di oggi ormai diventato un ibrido (un patchwork dei precedenti licei:
classico, scientifico, artistico, linguistico) o una chimera, come direbbe un
obsoleto umanista, bensì torni a quello degli anni Settanta…