La morte compagna di una vita
Riceviamo da Gianni Comastro e volentieri pubblichiamo
In un bellissimo film – da me particolarmente amato, sebbene non ne condivida appieno l’impianto fortemente religioso – di Ingmar Bergman, Il settimo sigillo, il cavaliere Antonius Block sfida la Morte, venuto a prenderlo al suo ritorno dalla Crociata, a una partita a scacchi. Più che un espediente per rimandare la fine della sua esistenza terrena, la partita è l’occasione per presentare una galleria dei diversi atteggiamenti umani nei confronti della morte, evocata come imminente dalla presenza di un’epidemia di peste nel Paese.
Come tutti, fin da bambino ho conosciuto la morte tramite la scomparsa dei miei cari più anziani; come molti, fin da bambino ho ricevuto un’educazione cattolica, il che – fra le altre cose – esorcizza, almeno parzialmente, la paura della (propria) morte, grazie alla fede in un’entità trascendentale che garantisce un aldilà dopo la fine dell’esistenza terrena.
Già dall’adolescenza mi sono però reso conto che delle tre virtù teologali privilegiavo la speranza e la carità, perché si esprimevano con il rapporto con il mio prossimo, mentre assai fragile era la fede, specialmente per l’insopportabile legame che il cattolicesimo aveva con il clero, come esclusivo intermediario e interprete del mio rapporto con Dio.
Da allora credo in una sorta di animismo einsteiniano: dal momento che, come tutte le cose, sono fatto di energia e di materia, la mia morte significherà semplicemente una trasformazione di questa miscela individuale nella quantità indistinta di energia e materia della natura (trasformazione simmetrica a quella rappresentata dalla nascita).
Eppure, considero ogni momento della mia vita come una partita a scacchi con la morte, non giocata con un avversario a me estraneo, ma fra due parti di me. È una partita fra la mia componente vitale e la mia componente autodistruttiva e mortifera. Ogni ricordo gratificante di oltre sessant’anni è legato a un episodio, a un traguardo raggiunto, a una soddisfazione anche momentanea, tutti frutti di una mossa azzeccata della mia energia vitale; ogni fallimento, ogni impotenza, ogni frustrazione, ogni sofferenza deriva invece dall’energia negativa che è in me e che si dimostra sempre un abile giocatore di scacchi.
È una partita solitaria, come quella rappresentata in un breve filmato d’animazione della Pixar dove l’anziano Geri su un tavolino di un parco pubblico gioca una partita a scacchi con sé stesso, muovendosi lentamente da una parte all’altra della scacchiera per muovere alternativamente i pezzi bianchi e neri. Una partita dove è presente una forte competizione, ma anche una comprensione, quasi un’empatia fra i due giocatori, dal momento che sono la stessa persona.
Questo non elimina la paura dalla mia vita… non la paura della morte, perché la provo solo per un’eventuale malattia invalidante o degenerativa che potrebbe precederla; provo paura per l’eventualità che la mia componente negativa, dopo tante mosse vincenti e pezzi catturati, possa dichiarare scacco matto e vincere la partita di una vita. Cui, nonostante tutto, sono ancora strenuamente, forse incomprensibilmente, attaccato.