Israele è lo stato nazionale del (solo) popolo ebraico
Israele è solito definirsi uno “Stato ebraico e democratico”, ma l’approvazione il 19 luglio 2018 da parte del parlamento israeliano, la Knesset (Assemblea in ebraico), della Legge fondamentale sullo Stato nazionale del popolo ebraico – il cui testo peraltro non contiene mai la parola democratico – sancisce non già una democrazia, ma una etnocrazia, cioè la supremazia degli ebrei sui non ebrei. Questa supremazia era già sottintesa in numerose leggi, come quella del Ritorno o della Nazionalità, ma con la legge fondamentale assume rilievo costituzionale.
La supremazia ebraica viene già chiarita nei tre principi fondamentali enunciati nella parte iniziale del provvedimento che sanciscono:
- lo storico diritto degli ebrei a considerare la Terra di Israele (cioè il territorio che nel mandato inglese della prima metà del XX secolo era denominata Palestina) come la propria patria [“La Terra di Israele è la patria storica del popolo ebraico, in cui è stato fondato lo Stato di Israele stabilito”]
- il diritto ebraico sulla Terra di Israele è un diritto naturale che si basa sulla comune base culturale e religiosa [“Lo Stato di Israele è lo stato nazionale del popolo ebraico, in cui esso realizza il suo diritto naturale, culturale, religioso e storico all'autodeterminazione”]
- il diritto all'autodeterminazione è prerogativa del solo popolo ebraico [“L'esercizio del diritto all'autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è unico per il Popolo ebraico.”]
I diritti civili (compresi quello all’abitazione, alla libera circolazione, al lavoro) e politici sono distribuiti in base all’appartenenza etnica:
- i sette milioni e quattrocentomila cittadini ebrei, compresi coloro che risiedono a Gerusalemme Est e nella Cisgiordania occupata, godono pienamente di tutti i diritti civili e politici;
- il milione e settecentomila palestinesi che vivono dentro i confini israeliani del 1948 (nei documenti ufficiali chiamati arabi-israeliani) sono cittadini israeliani e, nonostante lo status di cittadini garantisca loro numerosi diritti, non godono comunque degli stessi diritti dei cittadini ebrei né per legge né in pratica;
- i trecentocinquantamila palestinesi che vivono a Gerusalemme Est sono considerati “residenti permanenti” in Israele, una condizione che permette loro di vivere e lavorare in Israele senza bisogno di permessi speciali, di ricevere aiuti sociali, l’assicurazione sanitaria e il diritto di voto nelle elezioni municipali della città. Il loro status, a differenza della cittadinanza, può essere revocato in qualsiasi momento, a discrezione del Ministero degli Interni;
- i due milioni e seicentomila palestinesi della Cisgiordania occupata non godono di alcun diritto politico, mentre limitati diritti civili sono concessi dall’Autorità Nazionale Palestinese, ma sempre solo con il consenso israeliano;
- i due milioni di palestinesi della Striscia di Gaza, sotto stretto embargo dal 2007, non godono di alcun diritto né civile né politico, ma Israele – grazie al rigido controllo sulla circolazione di merci e persone ai confini, terrestri come marittimi - determina ogni aspetto della vita dei suoi abitanti: accesso all’acqua; limitazione della pesca; embargo di cibo, medicine e materiali edilizi; sospensione discrezionale dei permessi di lavoro in Israele.
La rivendicazione della supremazia ebraica e il diritto a che la Palestina sia storicamente la patria dei soli ebrei sono proprie di una delle due anime del sionismo, quella radicale, fin dalle sue origini.
Nel 1917 così come il politico britannico Lord Shaftesbury proponeva di “dare a un popolo senza terra [gli ebrei] una terra senza popolo [la Palestina]”, Israel Zangwill, pur affermando che in quella terra vivevano allora seicentomila arabi, sottolineava che “non c'è un popolo arabo che viva in intima fusione con il paese, sfruttando le sue risorse e imprimendovi una impronta caratteristica: ci sono al massimo accampamenti arabi”; da questa constatazione Zangwill deduceva il diritto degli ebrei di “cacciare con la spada le tribù che la posseggono, come hanno fatto i nostri padri”.
A Zangwill rispondeva il futuro primo premier di Israele, David Ben Gurion, riguardo la popolazione che viveva in Palestina: “Per nessuna ragione dobbiamo ledere i diritti dei suoi abitanti. Solo gente come Zangwill può immaginare che la Terra di Israele sarà data agli ebrei assieme al diritto di espropriare gli attuali abitanti”.
Nei trent’anni successivi prevalse – non senza contraddizioni - l’anima moderata del sionismo, fino all’inclusione nella dichiarazione d’indipendenza di frasi come: garantire “la completa uguaglianza dei diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti indipendentemente dalla religione, dalla razza o dal sesso” e anche “la libertà di religione, di coscienza, lingua, educazione e cultura”.
Oggi invece, in realtà da molti anni, prevale l’anima radicale del sionismo che, per difendere la supremazia ebraica, aspira all’espulsione dei palestinesi dalla loro terra e, nel frattempo, a un deciso incremento dell’immigrazione degli ebrei della diaspora, in modo da mantenere una supremazia ebraica anche demografica.
Israele come “casa di tutti gli ebrei”
Israele ha oggi una popolazione di 9,2 milioni di abitanti, di cui poco meno di sette milioni è costituita da ebrei, più di un milione e mezzo da arabi palestinesi, mentre sono circa 700 mila i cristiani o gli appartenenti ad altre etnie.
Da alcuni anni, da quando cioè si è affacciata l’ipotesi di un’annessione totale o parziale della Cisgiordania, i diversi governi succedutisi in Israele hanno cominciato a temere un futuro in cui la popolazione palestinese potesse superare numericamente quella ebrea. Nonostante oggi in Israele tre quarti degli abitanti siano ebrei e solo un quinto palestinesi, mentre l’annessione della Cisgiordania, dopo quella di Gerusalemme Est, comporterebbe l’incremento di poco meno di tre milioni e mezzo della popolazione palestinese, il pericolo di una superiorità numerica degli arabi in una futura Israele allargata è percepito come reale, principalmente per alcuni ordini di fattori:
- benché Israele abbia una popolazione giovane (l’età media è di 28,3 anni) e un tasso di natalità (3,11) doppio rispetto a quello degli altri Paesi industrializzati, la popolazione palestinese è ancora più giovane (l’età media è 22,4 anni) e il tasso di natalità – nonostante sia diminuito negli ultimi anni - ancora più alto (4,1);
- già dal 2020 la popolazione palestinese, considerando anche i due milioni di abitanti della Striscia di Gaza (che sarebbe comunque esclusa dall’annessione, ma che per due terzi è costituita da profughi) ha superato quella ebrea;
- nonostante la legge israeliana sull’immigrazione – che riguarda esclusivamente i non ebrei, poiché dal 1950 la Legge del ritorno consente a tutti gli ebrei che emigrino in Israele la concessione automatica della cittadinanza – sia molto restrittiva sul ritorno dei profughi palestinesi, un’annessione potrebbe prevedere l’arrivo di mezzo milione di profughi dal Libano e un milione e trecentomila dalla Striscia di Gaza, di cui mezzo milione ospitati nei 59 campi UNRWA (non considerando i 3,7 milioni di palestinesi rifugiati in Giordania);
- la legge israeliana sulla nazionalità esclude gli abitanti dei territori occupati di Cisgiordania e Gerusalemme Est che vengono considerati semplici “residenti permanenti” (Toshavim in ebraico), ma è verosimile pensare che l’annessione comporterà la rivendicazione del loro diritto alla cittadinanza.
Per questi motivi Israele, in raccordo con organizzazioni ebraiche presenti in tutto il mondo, ha moltiplicato gli sforzi per attrarre ebrei della diaspora disposti a trasferirsi in Medio Oriente, offrendo loro un’abitazione (nelle nuove costruzioni realizzate negli insediamenti in Cisgiordania o a Gerusalemme Est in case requisite ai proprietari palestinesi), incentivi economici, sgravi fiscali e sovvenzioni per avviare una nuova attività.
Nonostante l’immigrazione ebraica sia in costante crescita (un terzo in più registrato nei primi nove mesi di quest’anno) il governo aspira a espanderla ulteriormente; il primo ministro Naftali Bennett ha posto l’obiettivo di “portare 500.000 immigrati dalle grandi comunità negli USA, in Sudamerica e Francia”, dal momento che “dalla sua fondazione fino ai giorni nostri l’immigrazione ebraica ha plasmato la società israeliana e creato un mosaico unico e diverso da qualsiasi altro posto nel mondo”. Dopo aver notato la discriminazione insita in questa affermazione – preferendo gli ebrei provenienti dai Paesi occidentali, di norma più ricchi e istruiti di quelli provenienti dall’ex blocco sovietico – va anche rimarcata l’ipocrisia nel celare la vera motivazione, ovvero mantenere agli ebrei la maggioranza ebraica nella popolazione del Paese, dietro la non documentata affermazione che “razzismo e antisemitismo stanno dilagando in tutto il globo”.
Contestualmente si cerca di limitare l’immigrazione palestinese, già negata ai profughi discendenti dei palestinesi che non erano presenti nel territorio israeliano al momento della sua fondazione nel 1948; a ottobre alla Knesset era in discussione una riforma della legge sull’immigrazione per vietare il ricongiungimento familiare ai cittadini arabo-israeliani nel caso i parenti siano palestinesi o provenienti da non meglio precisati “Paesi ostili”; per la seconda volta l’emendamento è stato bocciato dalla Knesset perché privo dell’approvazione governativa.
Così, mentre anche gli ebrei più progressisti accettano il diritto al ritorno dei profughi palestinesi solo per quanto riguarda la Cisgiordania e Gaza, in modo da preservare il carattere ebraico di Israele, si continua a favorire la aliyah, il ritorno degli ebrei dalla diaspora, e a negare lo stesso diritto ai palestinesi, che stancamente esibiscono ogni 15 maggio – anniversario della Naqba, l’espulsione forzata dei palestinesi dalla loro terra fra il 1947 e il 1949 – una vecchia chiave come simbolo di un impossibile ritorno a vivere nelle proprie case.
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