KM 0
Riceviamo da Luigi Randaccio e volentieri pubblichiamo
I predicatori della new economy, per esortare a consumare il prodotto locale, decisero di riassumerne in una sola parola tutti gli indiscutibili pregi mediante un semplice trucchetto grammaticale, ovvero tra tutti gli aggettivi possibili ne individuarono semplicemente uno: l’aggettivo possessivo “nostro”, che con un piccolo salto di logica divenne “nostrano”, magica parola che lo trasforma in un aggettivo qualificativo, implicando così non solo una rassicurante vicinanza del territorio, una garanzia, ma anche un vero atto di fede.
Nulla di male, più che giusto nobilitare i prodotti del luogo, ma questi devono essere migliori di quelli d’importazione, non solo a parole e soprattutto avere un giusto rapporto qualità/prezzo. Il consumo locale dovrebbe costare meno perché ci dovrebbero essere meno costi di intermediazione, meno costi di trasporto e meno mistificazioni.
Il costo della furbite
Da sempre però, c’è chi per vendere prodotti locali ne sopravvaluta la qualità rincarandoli indebitamente, perché l’unico ragionamento è: “siccome è del luogo non può che essere pregiato e siccome è pregiato non può che essere più caro degli altri”. In molti luoghi d’Italia mi è capitato di vedere e provare prodotti unici, esclusivamente locali; prodotti di nicchia al di fuori dai normali circuiti: uno sa di acquistare un prodotto unico, lo apprezza e come logica conseguenza lo paga bene. Tali giustificazioni non ci sono però per prodotti locali certamente buoni, ma non unici, anzi, tranquillamente reperibili altrove. Seppure l'acquisto diretto dal produttore implichi prezzi più alti di quelli che spunta (sfruttato) nel mercato, per quanto riguarda la GDO e anche i negozi che si riforniscono ai mercati generali, dove il prezzo è dettato dalla concorrenza, i rincari del prodotti locali sono ingiustificati e dovuti semplicemente ai profitti lucrati sulla fascinazione del termine "nostrano" nella clientela. In questo caso, veramente l’unica caratteristica che accomuna molti prodotti in svariate località italiane, è semplicemente la furbite cronica che però non giova a nessuno sul lungo periodo.
Mi è capitato di trovare carciofi carissimi in Sardegna, ben più cari di quelli venduti a Torino. Peccato, perché questi ultimi non provenivano dalle nordiche contrade di Moncalieri, ridente città con poca campagna e più contigua per cemento al capoluogo subalpino, bensì dalle lontane terre della magica isola.
Così vale per le anguille, quelle in vendita vicine a Comacchio sono più care di quelle commercializzate in altre zone d’Italia ma che, 90 su 100, provengono sempre da zone geograficamente simili. Quel luogo giustamente vanta un parco faunistico di tutto rispetto, ma c’entra ben poco con le chiuse, da secoli messe apposta per non fare ritornare i gustosi simil-serpentelli a riprodursi nel mar dei Sargassi. Quindi che non mi vengano a dire che l’anguilla fermata nel delta del Po è più buona di quella catturata in qualche torrente della Liguria o nello stagno di Santa Gilla (Ca) prima che se la svigni in mare.
La stessa scusa o pretesto vale per tantissimi altri prodotti qua e là di tutto lo stivale, anche famosi per la qualità, la quantità, ma non unici. Non li cito tutti perché non basterebbe il post e poi, perché semplicemente potrei facilmente incorrere nelle ire paesane di tutte le varie pro loco che difendono i frutti della propria economia, i quali però, spesso e volentieri hanno prezzi irragionevoli.
Il prezzo della distanza
Gli alchimisti grammaticali, al passo con i tempi, si sono poi adeguati alla vocazione ecologista, inventandosi così un appellativo totalmente rinnovato per la fregatura di sempre, cioè il km 0. È bellissimo il concetto base sulla sostenibilità ambientale, perché ti dice anche quanto il carburante fossile, che si adopera per trasportare un determinato prodotto alimentare da una parte all’altra del mondo, inquini il pianeta. Anche in costi pecuniari aggiungo io, perché neppure la benzina pare che la regalino. Con quell’incessante martellamento a volte hanno quasi convinto pure me. Per fortuna però, in soccorso del mio lato di irriducibile ottimista, è piovuta come manna dal cielo una palese contraddizione che non posso non fare a meno di citare: in un supermercato nei paraggi di casa mia in Piemonte, nel reparto orto frutta, trovai una pila di casse di mele con il cartello km 0, la zona di provenienza siglata Cn (Cuneo) e il prezzo. Non ricordo di preciso il costo ma constatai di sicuro quanto fosse stato irragionevolmente più alto delle altre mele della stessa varietà messe in vendita accanto e provenienti invece dalla Val di Non, sita nel Trentino. Sfido chiunque a sostenere che le mele cuneesi sono migliori di quelle ben più famose del Trentino (lì le conservano e stoccano in enormi grotte dolomitiche, altro che i magazzini piemontesi!) e, ammesso che lo siano veramente, dovrebbero comunque costare di meno, in quanto minore trasporto vuol dire minori costi per filiera più corta, ed è un ottimo motivo per incentivarne il consumo. A dire il vero poi proprio a km 0 non lo erano, in quanto di mezzo c’era circa una settantina di km, perché provenienti dalla zona di Cn e messe in vendita in provincia di Torino.
Ma certi ambientalisti credono veramente di salvare il mondo con le formulette? Non si sventa il disastro ambientale se la questione delle emissioni la si carica solo sulle spalle del consumatore. Non basta lanciare strali o focalizzare l’attenzione su problemi solo perché evidenziati da salvatori auto referenziati. Attualmente, a parte gli appartenenti di Greenpeace e pochi altri coraggiosi attori, non vedo altri pionieri del green con quell’impeto andare fino in fondo ed essere ugualmente scomodi, senza cercare per forza di essere simpatici a qualcuno e diventarne conniventi. I risultati purtroppo sono sotto gli occhi di tutti, confermando che l’unico argomento sentito veramente è quello del profitto. A differenza dei trattamenti alla frutta però, furbite cronica e superficialità non si debellano con gli antiparassitari o la lotta integrata.
Fateci caso: ovunque, a lato del km 0 quasi mai c’è un prezzo congruo, ma un plusvalore monetario grazie a quest’ultima trovata a effetto. Un’ecologia seria dovrebbe preoccuparsi certamente dell’inquinamento che implica il trasporto delle zucchine da un punto all’altro, ma non solo di quello o altre stupidaggini a effetto.
Il discorso del km 0 a mio parere potrebbe dare significativi risultati se lo si estendesse a tutto il resto del vivere umano: che senso ha per me acquistare zucchine a km 0 se poi per lavoro o per una visita di controllo percorro più di 50 km in un giorno? Che senso ha se un altro come me, a casa sua acquista anche lui le zucchine a km 0, ma poi percorre anch’egli 50 km quel giorno per venire magari a svolgere lo stesso lavoro o a farsi visitare proprio sotto casa mia, mentre io invece lo faccio all’inverso per andare vicino alla sua? Per non parlare poi se si va in una crociera qualsiasi dove si può mangiare un prodotto locale (tutti i prodotti a modo loro sono locali come tutti hanno avuto una mamma) per contribuire a salvare il pianeta, ma scorrazzando per i mari inquinandoli con la nafta. Chiaro, sembra una barzelletta una condizione simile, ma mica tanto.
Tutto locale
Ci sono altre situazioni paradossali con questa storia del prodotto locale che fa da ombrello a tante altre stranezze, che però non sarebbero tali se non si desse tanta importanza a un concetto fuorviante che non dovrebbe proprio esistere: non molto tempo fa, per strada, le forze dell’ordine preposte ai controlli, su un camion frigo rinvenirono una partita di semilavorati per fare le mozzarelle: questi prodotti non sono altro che cagliate al giusto grado di acidità e consistenza, pronte per essere trasformate con un ultimo passaggio nell’acqua calda in quei gustosi formaggi a pasta filata… tutto bene dunque, quale sarebbe stato allora il problema? Il camion proveniva dalla Germania: beh? E allora? Era diretto in Puglia!
Per carità non ci sarebbe nulla di male nel consumare mozzarelle concepite e cresciute in seno tedesco ma partorite a Bari, anzi! Qualcosa mi dà pure a pensare che il latte tedesco non abbia nulla a invidiare quello pugliese. Il problema sorge però se le mozzarelle, come qualunque altro prodotto locale risultano tali senza esserlo sostanzialmente affatto, in virtù del semilavorato proveniente da altrove: per farla breve, c’è più magia nella pietra filosofale della grammatica da etichetta che nella merce a km 0. Guardatevi un attimo intorno e chiedetevi un poco per tutto il resto: cosce di suini giunte dall’estero che diventano prosciutti italiani e che poi magari tornano pure allo stesso posto da dove sono venute con nuova cittadinanza; pecorini romani prodotti da grosse ditte in Sardegna con il latte rumeno, mentre quello sardo viene adoperato dai pastori del luogo per lavare le strade in segno di protesta. Made in Italy dichiarato anche per i capi d’abbigliamento che arrivano da altrove, a distanza di sicurezza da quelle regole e regolette, nonché noiosi lacci e lacciuoli messi per una salvaguardia dell’ambiente che non rende quattrini e degli operai che non meritano un cazzo; un ritorno in patria, un’etichetta che dichiara qualunque cosa faccia piacere leggere.
Se però qualcuno crede ancora alle fiabe, libero di farlo ed è giusto che paghi più caro un prodotto che vale come quelli meno cari, siamo in democrazia. La verità del chilometraggio è che però non si affronta seriamente il problema; se veramente lo si facesse cambiando totalmente il modello attuale ognuno lavorerebbe, produrrebbe e consumerebbe vicino a casa propria con gran beneficio per l’ambiente anche se l’export, l’economia e questo tipo di benessere dovremmo poi dimenticarceli. In questo paese, da una parte ti dicono giustamente di preferire il prodotto locale per favorire l’economia e l’ambiente, nel contempo però te la fanno a fette lamentando di un mercato che va male perché non fa abbastanza export e a quelle poche imprese che lo fanno tessono le lodi per... l’impresa. Dunque l’export e il km 0 collidono? So che a ognuno degli argomenti si dà importanza a seconda di chi si vuole convincere, ma so anche che nel tirare la fune dai due capi, prima o poi la si spezza.