Il deficit di cure sanitarie

Com’è noto, negli Stati Uniti il sistema sanitario non è pubblico, ma basato sulle assicurazioni sanitarie private, sebbene il governo preveda sostegni per le categorie disagiate (attraverso i programmi Medicaid e Medicare). Nel 2010 è stata varata una grande riforma sanitaria ACA - Affordable Care Act (nota anche come ObamaCare dal presidente che l’ha fortemente voluta) che ha esteso l’obbligo di assicurazione sanitaria a tutti i residenti permanenti negli Stati Uniti – non solo ai cittadini statunitensi – ha ampliato l'idoneità al Medicaid e alla copertura sovvenzionata per milioni di americani che erano a basso reddito o non avevano accesso all'assicurazione sanitaria attraverso i loro datori di lavoro, mentre ha previsto sgravi fiscali per le compagnie di assicurazione che, per contro, hanno l’obbligo di stipulare polizze anche a persone con patologie pregresse.
L’ObamaCare per superare le resistenze repubblicane (e delle potenti assicurazioni private) non ha quindi creato un sistema sanitario pubblico ma ha principalmente esteso l’obbligo ad avere un'assicurazione sanitaria facilitandone e supportando finanziariamente l’accesso.

Ciò nonostante rimangono ancora scoperti 28,9 milioni di americani senza alcuna forma di assicurazione sanitaria, rispetto ai 32 milioni di dieci anni fa e quasi la metà della forza lavoro statunitense, 87 milioni di americani, ne ha una con una copertura scarsa e insufficiente.

La difficoltà di accesso alle cure sanitarie di più di un quarto dell’intera popolazione statunitense è dovuta a diversi fattori:

  • la flessibilità nell’applicazione prevista dalla stessa riforma che consente agli Stati governati dai repubblicani, da sempre contrari all’ObamaCare, di ostacolare la stipulazione di polizze coperte dall’ACA o di prevedere costi vivi aggiuntivi per l’assicurato;

  • il fatto che circa la metà di tutte le polizze assicurative sono accese dai datori di lavoro che ovviamente scelgono quelle meno onerose, mentre non sempre i lavoratori e le lavoratrici hanno la possibilità di ricorrere ad assicurazioni integrative;

  • l'aumento del costo dei farmaci da prescrizione - non coperto dalle assicurazioni sanitarie base che normalmente includono solo l’assicurazione ospedaliera e quella medica, ma non quella per i farmaci su ricetta - su cui andrebbe attivata un’ulteriore polizza integrativa

  • ma, soprattutto, l’entità della franchigia, cioè la spesa sanitaria annua non coperta dall’assicurazione, che può variare da seimila dollari per una polizza individuale a oltre dodicimila dollari per una familiare. Per comprendere quanto questa cifra possa incidere sul bilancio familiare, basti considerare che il livello di povertà federale è fissato in 24.120 dollari per un individuo o 49.200 per una famiglia di quattro persone.

Il deficit di cure sanitarie negli Stati Uniti ha oggi un bilancio preoccupante: otto milioni di persone nel 2018 sono state spinte nella fascia più povera della popolazione dalla spesa sanitaria, mentre 137 milioni di americani hanno affrontato difficoltà finanziarie nel 2019 sempre a causa delle spese mediche, per far fronte alle quali hanno preso in considerazione l’idea di prelevare denaro dai loro conti pensionistici.


in Italia?

In Italia abbiamo una situazione molto diversa, il sistema sanitario è basato sui principi generali di universalità, uguaglianza ed equità verso la popolazione. Alla fine degli anni ’70, quando fu introdotto, il Servizio Sanitario Nazionale era così innovativo che divenne modello per i sistemi sanitari implementati in altri Paesi; poi, all’inizio degli anni ’90 con l’introduzione delle Aziende Sanitarie Locali, il sistema sanitario perseguì l’obiettivo di una maggiore efficienza, con l’individuazione di Livelli essenziali di assistenza (LEA) da garantire a tutti i cittadini, l’introduzione di nuovi criteri di finanziamento e di spesa e il potenziamento del ruolo delle Regioni.

  • La pandemia ha però smontato molte certezze di un sistema ben teorizzato ma con grosse criticità strutturali: in teoria utilissimo, il meccanismo dei LEA per come è stato costruito si è rivelato inadeguato - pensato principalmente per il rientro contabile dei bilanci regionali e non per rilevare l’outcome (gli effetti reali per processo di cura) del sistema sanitario - non è stato in grado di rilevare carenze croniche come la debolezza della medicina territoriale in molte Regioni (spesso anche in quelle considerate virtuose) e l’assenza sostanziale della sanità pubblica con, per esempio, il mancato aggiornamento dei piani pandemici e comunque non sorvegliando la loro mancata applicazione, mentre i Livelli Essenziali di Assistenza, mal progettati e mal implementati dal Ministero della Salute dalla loro nascita nel 2005, non rivelano i reali livelli di assistenza del sistema sanitario.


  • La spesa pubblica sanitaria, cresciuta nominalmente, è drasticamente diminuita in termini reali e a causa delle difficoltà di bilancio, dovute al crescente peso degli interessi sul debito, lo Stato – a partire dal governo Monti e per tutti i governi successivi – ha deciso di dirottare parti della spesa sanitaria su altri capitoli di spesa, oppure a non erogare integralmente la somma stanziata in bilancio. Un taglio sottotraccia di ben 37 miliardi di euro in un decennio, rispetto a una spesa annua di poco più di 200 miliardi. Le regioni hanno quindi puntato a contenere i costi attraverso:

    l’aziendalizzazione delle unità sanitarie locali la cui gestione    manageriale invece di razionalizzare la spesa sanitaria e migliorare le prestazioni erogate ha prodotto una burocratizzazione dei servizi;

    la concentrazione dei servizi sanitari pubblici in mega-ospedali ha depotenziato la rete dei servizi territoriali, proprio in un periodo in cui, con la crescita dell’età media della popolazione, aumentavano le cronicità, patologie che si sarebbero più efficacemente potute seguire con strutture di prossimità, senza intasare le corsie d’ospedale;

    la spesa per il personale è stata completamente congelata, non rimpiazzando le persone che vanno in pensione e neppure i medici che abbandonano il pubblico per il più remunerativo privato. Si è così arrivati, in un solo decennio, a ridurre il personale in servizio di ottomila medici e tredicimila infermieri.

  • Con una malintesa interpretazione del principio di sussidiarietà si è favorita la privatizzazione del settore, con la conseguenza che le cliniche private convenzionate hanno potenziato i reparti che garantivano una maggiore redditività, lasciando al pubblico quelli improduttivi, come la medicina d’urgenza (pronto soccorso e terapia intensiva);

    un sostegno implicito alla privatizzazione è venuto dallo Stato che ha disposto agevolazioni fiscali per le aziende che sostituiscono incentivi salariali per i propri dipendenti con forme di welfare aziendale. Una politica che ha danneggiato doppiamente i lavoratori: da una parte, con un aumento salariale avrebbero avuto un minimo di liquidità in più da spendere a proprio piacimento, oltre ad aumentare i contributi ai fini del trattamento di fine rapporto e del conto previdenziale e dall’altra, si trovano a pagare due volte lo stesso servizio (una volta con il suo contributo al SSN attraverso la fiscalità generale e indirettamente una seconda volta attraverso il premio assicurativo);

    paradossalmente la privatizzazione sanitaria strisciante è favorita anche dall’inefficienza nella gestione delle prenotazioni - anche di una prestazione urgente, cui il servizio pubblico non riesce a garantire disponibilità in tempi rapidi - che costringe sempre più spesso l’assistito a rinunciare alla prestazione o a ricorrere di tasca propria al settore privato (con il cosiddetto out of pocket). Su questa difficoltà di accesso ai servizi sanitari pubblici si inseriscono le prestazioni sanitarie integrative, che offrono condizioni migliori al cittadino (per esempio tempi di attesa inferiori), favorendo contestualmente l'operatore privato, dal momento che spesso la copertura assicurativa riguarda solo servizi particolarmente remunerativi per il privato, come la diagnostica o la specialistica ambulatoriale;

    la tendenza alla privatizzazione ha inoltre spinto verso l’impoverimento della medicina territoriale a favore delle grandi strutture ospedaliere economicamente più redditizie. Questi nuovi squilibri non sono stati rilevati in modo efficace ed ora ci rendiamo conto che Regioni considerate virtuose, come la Lombardia, avevano, forse, buoni ospedali ma un sistema sanitario regionale squilibrato e inadeguato che è stato travolto dalla pandemia.
  • Il ricorso alla mobilità sanitaria, cioè assistiti – prevalentemente residenti nelle Regioni meridionali – che si curano in strutture di altre Regioni, prevalentemente settentrionali, comporta per le Regioni di residenza spese di rimborso che riducono ulteriormente il loro già magro bilancio di spesa sanitaria. La scarsità di risorse delle Regioni meridionali è in parte dovuta al complesso meccanismo di distribuzione del Fondo Sanitario Nazionale tra i 21 centri di spesa dove (a parte le spese farmaceutiche per cui viene fissato un tetto massimo di spesa uguale per tutti) meno del 60% dei contributi viene distribuito in base al numero di abitanti, mentre oltre il 40% viene erogato secondo una quota capitaria, cioè una quota pro capite ponderata in base alle fasce di età, a ciascuna delle quali viene attribuito un diverso coefficiente di probabilità di accesso a una visita specialistica o a un ricovero ospedaliero. In questo modo si favoriscono le Regioni con un maggiore tasso di anzianità a discapito di Regioni con una popolazione più giovane: così le Regioni che ricevono maggiori contributi pro capite superiori alla media nazionale sono due settentrionali (Liguria e Friuli-Venezia-Giulia) e due centrali (Toscana e Umbria), mentre le quattro con minori contributi rispetto alla media sono tutte meridionali o insulari (Campania, Sicilia, Calabria e Sardegna).
  • La riforma del titolo V approvata nel 2001, che attribuisce alle Regioni la potestà legislativa – assieme a molte altre materie – sulla tutela della salute, riservando allo Stato solo la determinazione dei principi fondamentali, ha portato alla creazione di 21 sistemi sanitari, tante quante sono le Regioni e le Province autonome.
    In questo contesto la mancanza di una reale politica di sviluppo dell’Information Technology Sanitaria ha portato a una frammentazione senza precedenti con regioni più avanzate, ma in modo diverso tra loro, e altre più o meno arretrate. È totalmente mancata una politica tecnologica comune, come già sottolineato in altro post.

Mancano standard per l’interoperabilità, limitati solo ad alcuni documenti clinici, e mancano, se non per autonoma scelta locale di alcune Regioni, politiche di gestione di sistemi tecnologici complessi come quelli sanitari. A livello nazionale manca completamente una governance del processo di digitalizzazione. Nella maggior parte delle esperienze internazionali questa è realizzata da agenzie specializzate di livello nazionale mentre in italia è frammentata tra diversi Ministeri ed Agenzie (Ministero della Salute, Ministero dell'Economia e delle Finanze ed AgID) e le singole Regioni.

La mancanza di una politica dell’IT si riflette anche sui già citati LEA: per esempio il Ministero della Salute ha potuto pubblicare nel 2019 il rapporto sul raggiungimento dei LEA basato sui dati del 2017. è evidente che un sistema non può essere governato con rapporti che arrivano con tre anni di ritardo.

Il solo ambito di digitalizzazione che è proseguito negli ultimi anni è quello del Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE). Tuttavia questo sconta la mancanza di reali investimenti (esclusi quelli regionali), una governance frammentata e una concezione obsoleta come semplice archivio di documenti sanitari con un impatto limitato sui processi di cura.

Al momento attuale il Fascicolo nelle Regioni, dove questo inizia a funzionare, permette di raccogliere alcuni documenti sanitari facilitandone lo scambio tra operatori sanitari e cittadino. Tuttavia il FSE non è inserito nei processi di cura (l’analisi dei processi di cura e dei clinical pathway è assente dalla progettazione), manca una politica nazionale sulle terminologie cliniche che rende i documenti solo parzialmente standardizzati e non confrontabili tra loro. Il paradosso è che l’FSE in questo modo diviene un costoso sistema di posta elettronica per i referti ma non funziona se il cittadino ha problemi sanitari dato che in questo caso il suo FSE si riempirà di numerosi documenti clinici senza che il medico abbia modo di analizzarli se non leggendoli uno ad uno.

Quella che era la politica politica iniziale per la creazione del FSE nel 2006, la standardizzazione dei documenti clinici, non ha subito cambiamenti in circa 15 anni ed è inevitabilmente diventata parziale ed obsoleta.

Nonostante vi sia stata una sperimentazione in questo senso i Fascicoli regionali sono spesso separati: una persona che trasferisca la propria residenza in un’altra regione si può vedere azzerare la propria storia sanitaria registrata nel Fascicolo Sanitario Elettronico, perché la nuova Regione di residenza utilizza un Fascicolo sviluppato su una piattaforma non pienamente interoperabile; stesso discorso può valere per chi risiede in una Regione, a esempio un docente, ma insegni in una scuola di una Regione vicina se si ammala durante la sua giornata di lavoro non ha la certezza che il suo Fascicolo possa essere acceduto in un ospedale. Analoghi problemi si stanno verificando nell’ambito della campagna di vaccinazione anti pandemica che evidenzia i limiti di una informatizzazione mal costruita. Il registro vaccinale del Ministero della Salute è separato da quello previsto nell’ambito del FSE.

È necessaria quindi una corretta e complessiva politica di digitalizzazione del Servizio Sanitario Nazionale, a partire da chiari obiettivi nella digitalizzazione ospedaliera, e della medicina territoriale, comprendendo che questo è necessario per realizzare un vero Fascicolo Sanitario Elettronico non inteso come un semplice archivio documentale ma come un insieme di standard di processi e di infrastrutture che finalizzate alla cura del cittadino quanto a quelle della popolazione.

È necessaria una riorganizzazione dell’architettura del FSE e più in generale dell’IT sanitario del paese. Sfortunatamente le bozze del cosiddetto “Recovery Plan” non vanno, a oggi, in questa direzione, limitandosi a un semplice “ammodernamento” e frammentando la pianificazione in diversi "Piani regionali” e “nazionali” sviluppati in parallelo e privi di coordinamento.

Un aspetto trascurato che di per sé potrà portare a un ulteriore fallimento del sistema sanitario è inoltre quello della acquisizione e formazione delle competenze necessarie alla gestione delle tecnologie. Queste oggi sono limitate e soprattutto disomogenee, a ogni livello del sistema (nazionale, regionale e territoriale). Sempre nelle bozze di piano attualmente questo aspetto appare completamente assente.

Siamo oggi di fronte a sfide del tutto nuove a cui siamo arrivati dopo molti anni in cui un sistema sanitario pubblico ben finanziato e moderno appariva qualcosa da limitare a favore di un sistema più spostato verso il settore privato e il contenimento dei costi, supposto come più efficiente.

L’ideologia “economica” degli anni passati ci ha condotto in una situazione irrazionale che la pandemia ha disvelato. Il nostro deficit sanitario, pur in condizioni storiche e strutturali radicalmente diverse rispetto a quello statunitense, soffre dei danni derivati dallo stesso approccio ideologico. Ora sarebbe necessario preoccuparsi del deficit reale che abbiamo generato.

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A prescindere dalle politiche economiche che possono essere attuate il punto è iniziare a rivolgere l’attenzione ai deficit reali delle economie, come questo, senza nascondersi dietro a deficit di bilancio che hanno smesso di essere reali da tempo.


 

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