Il deficit democratico
Nessun Paese che si definisca democratico è esente da questo deficit, perché il deficit democratico è alla base di tutti gli altri. È il motivo per cui mancano buoni posti di lavoro, per cui a molti è limitato l’accesso alle cure sanitarie o all’istruzione, per cui non ci si impegna a salvaguardare l’ambiente e la stessa sopravvivenza delle prossime generazioni: il deficit democratico è l’insostenibile aumento delle disuguaglianze.
Infatti, a collegare molti di questi deficit è la crescita esponenziale delle disuguaglianze economiche e sociali: gli Stati Uniti hanno l’indice di Gini – che misura la disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza – più alto fra tutti i Paesi industrializzati, mentre Stephanie Kelton ricorda anche l’impoverimento della middle class causato dal fatto che in cinquant’anni i salari dei lavoratori siano cresciuti solo del 3% in termini reali.
I super ricchi, anche durante l’attuale crisi economica, sono sempre meno, ma sempre più ricchi: secondo Forbes, Elon Musk ha superato quest’anno la soglia dei 100 miliardi di dollari di ricchezza, mentre Jeff Bezos ne ha aggiunti 65 al suo imponente patrimonio in soli dieci mesi.
I poveri invece sono sempre di più e sempre più poveri: solo da maggio a ottobre quasi otto milioni di americani sono caduti in povertà e si stima che alla fine del 2020 siano 50 milioni gli abitanti che sperimenteranno l’insicurezza alimentare.
I ricchi occupano posizioni lavorative prestigiose e scandalosamente ben retribuite; non hanno problemi di liquidità non solo per far fronte a spese impreviste, ma anche per concedersi spese voluttuarie e superflue; accedono alle cure specialistiche nelle migliori cliniche private; frequentano le università più prestigiose; vivono in lussuosi quartieri residenziali, lontani dal traffico e dall’inquinamento… tutte cose che sono negate non solo alle famiglie più povere, ma alla maggior parte degli americani.
Il deficit democratico si estende, oltre all’ambito socio-economico, anche a quello politico. I ricchi possono lautamente finanziare le campagne elettorali dei loro candidati e garantirsi che, una volta eletti, propongano provvedimenti che rispondano ai loro interessi; i poveri sono ormai diffidenti e delusi dalla maggior parte della classe politica che, nonostante le promesse in campagna elettorale, non ha mai fatto niente per loro. Questo spiega perché nelle passate elezioni per il Congresso (ma probabilmente se la ricerca fosse estesa a quelle più recenti il risultato non cambierebbe) l’80% dei ricchi ha votato a fronte del 47% dei poveri.
Per questo la riduzione del deficit democratico è la sfida più importante che la MMT propone di perseguire, non solo aumentando la progressività fiscale, ma intervenendo sui meccanismi di arricchimento della parte più ricca della popolazione e offrendo invece opportunità a quella più povera.
E in Italia?
In Italia l’astensionismo alle elezioni politiche è un fenomeno relativamente recente: nella storia repubblicana l’affluenza alle urne è sempre stata sopra al 90% fino alla fine degli anni ’70; ci sono voluti trent’anni perché scendesse nel 2008 all’80% e sono state sufficienti le elezioni del 2013 e del 2018 perché i votanti raggiungessero e poi scendessero sotto i tre quarti degli aventi diritto.
Questo deficit politico non si limita alla partecipazione al voto, ma si estende all’interesse stesso ne confronti della politica: secondo una recente indagine dell’Istat, tra il 2014 e il 2019 le persone di 14 anni in su che non partecipano alla vita politica (non ne parlano, non si informano, né vi partecipano direttamente) crescono dal 18,9% al 23,2%. Quindi dodici milioni di italiani si disinteressano completamente dell'ambito politico.
Questo deficit politico si concretizza in sentimenti come la sfiducia e la disaffezione verso i partiti che, perso il loro ruolo di mediatori tra istituzioni e società civile e il contatto con il territorio, sono percepiti come solleciti verso la loro base elettorale solo in prossimità delle elezioni. Questi sentimenti sono prevalenti, secondo la maggior parte delle analisi, nelle persone che soffrono per il mancato inserimento nella vita socio-economica della comunità, determinato in gran parte dalla mancanza di lavoro. È evidente che il deficit politico rimanda a un più ampio e importante deficit: quello democratico, l’insostenibile e costante aumento delle disuguaglianze.
Per l’Italia l’indice di Gini che, come si è detto, riporta la disuguaglianza nella distribuzione del reddito, nell'ultimo decennio era sempre attorno a 32 (rispetto alla media europea di 30), ma è salito a 34,8 nel 2019, poi a 36,5 nel primo trimestre 2020 e a 41,1 nel secondo trimestre 2020. Nella classifica europea l’Italia occupa il quinto posto fra i cattivi nell’Unione, superata solo da Paesi come Bulgaria, Romania, Lettonia e Lituania.
L’aumento delle disuguaglianze, a differenza degli Stati Uniti di cui si è trattato nella prima parte di questo post, non è stato influenzato dal contestuale aumento del patrimonio dei più ricchi, che è rimasto sostanzialmente stabile, mentre è frutto – pressoché esclusivo - dell’impoverimento di gran parte della popolazione, soprattutto quella che viene definita la “classe media”.
I numeri del deficit democratico
Secondo i resoconti di INPS, Istat, Banca d’Italia e Unimpresa a subire maggiormente gli effetti della crisi economica nel 2020 sono state le classi meno abbienti con una rilevante crescita della povertà assoluta, ma anche il ceto medio, la cui consistenza si è più che dimezzata in un solo anno.
Sono 5,6 milioni (il 9,7% dell’intera popolazione) le persone in povertà assoluta, cioè persone il cui reddito non consente la spesa minima in beni e servizi per una vita dignitosa. Si tratta di 365 mila famiglie in più rispetto al 2019;
l’incremento maggiore si registra al Nord con 720 mila nuovi poveri, anche se il Sud rimane l’area dove la povertà assoluta è più elevata, coinvolgendo il 9,3% delle famiglie contro il 7,6% del Nord e il 5,5% del Centro;
la povertà colpisce particolarmente i più giovani: sono 1,3 milioni i poveri minori di 19 anni, mentre centinaia di migliaia di famiglie monoreddito con il lavoratore tra i 35 e i 44 anni, per effetto della cassa integrazione, si sono ritrovate indigenti;
ma l’area di disagio sociale è assai più ampia: sono oltre 10,4 milioni gli italiani a rischio povertà, sommando ai 4 milioni di disoccupati i 6,4 milioni di occupati, ma in situazioni instabili o economicamente deboli (lavoratori con contratti a termine part-time o a tempo determinato, collaboratori e autonomi part-time);
in un solo anno si sono persi 660 mila posti di lavoro, e – ancora una volta – farne le spese sono stati i lavoratori precari - che non hanno potuto usufruire del blocco dei licenziamenti - e le lavoratrici che rappresentano il 51% fra coloro che hanno perduto il posto di lavoro nel 2020 - pur rappresentando il 42% dell’intera forza lavoro.
- l’aumento delle disuguaglianze è evidenziato anche dalla brusca riduzione della popolazione appartenente al ceto medio, fenomeno comune alla maggior parte dei Paesi industrializzati: da poco meno del 40% del 2019 si è bruscamente passati al 27% del 2020; questa contrazione della classe media è confermata dall’aumento contestuale delle famiglie in povertà relativa, appena un gradino sopra quella assoluta: sono 369 mila in più rispetto al 2019;
ovviamente tutto questo ha determinato una riduzione dei consumi: la spesa media mensile delle famiglie italiane è tornata ai livelli del 2000, con una contrazione del 10,9% rispetto al 2019. Se le spese alimentari e quelle per l’abitazione sono rimaste stabili, sono sensibilmente diminuite del 19,2% quelle per gli altri beni e servizi. La riduzione dei consumi ha riguardato anche le famiglie che non hanno visto ridursi il proprio reddito, il che ha comportato vistoso incremento della quota di reddito destinata al risparmio, come già evidenziato in altro post.
La danza immobile di un paese al bivio
È l’intrigante titolo del recente rapporto Ipsos sui sentimenti degli italiani, fiaccati dalla crisi sanitaria, economica e sociale. Il 73 per cento di loro avverte la presenza di una forte tensione sociale nel Paese, che cova sotto la cenere, ma può esplodere da un momento all’altro. Tensione che è maggiormente sentita dalle donne (78%), dai giovanissimi (l’80% degli under 24) e dai giovani (l’81% dei trentenni). Più generalmente, a percepire l’acuirsi delle forme di tensione sociale sono soprattutto le persone a medio o basso reddito che, come si è detto, hanno subito a causa della pandemia, un peggioramento della propria condizione economica e del proprio posizionamento nella società.
L’inquietudine è ben descritta dagli estensori del rapporto: “L’Italia è un Paese ambiguo sul da farsi, incompleto nella sua capacità di agire, avvolto, come in un eterno ossimoro, in una danza immobile, in cui i personaggi in scena lottano per le proprie maschere”.
Occorrerebbero misure assai più incisive - dal momento che il reddito di cittadinanza, quello di emergenza introdotto a maggio, il blocco dei licenziamenti, la cassa integrazione, i ristori e gli altri sostegni al reddito hanno solo contribuito ad alleviare il crollo del reddito delle famiglie italiane - che riguardino principalmente il settore delle entrate: una riforma fiscale che riduca le disuguaglianze con una più equa redistribuzione dei redditi.
Tre sono le possibili strade da percorrere, ma nessuna ha soverchie possibilità di essere intrapresa:
un deciso aumento nella progressività del prelievo fiscale, che lo riduca per la maggior parte della popolazione e lo aumenti sensibilmente per i ricchi e i super ricchi;
una tassazione, anche solo una tantum, sulle grandi ricchezze (la famigerata patrimoniale), mettendo in pratica i buoni proponimenti di Bill Gates per l’anno nuovo (2020): “sono favorevole a un sistema fiscale in cui, se si hanno più soldi, si debba pagare una percentuale più alta di tasse. Credo che i ricchi dovrebbero pagare più di quanto paghino oggi, inclusi me e Melinda... Occorre trasferire il carico fiscale dal lavoro al capitale, anche perché nessuna delle persone più ricche al mondo ha fatto una fortuna soltanto con il proprio stipendio”;
l’adozione di una progressività nelle aliquote dell’imposta sulle successioni e donazioni, introdotta nel 2006 dal governo Prodi e che aveva come unica variabile il grado di parentela degli eredi con il defunto, perché non è giusto né equo che chi eredita dieci milioni di euro paghi la stessa percentuale di chi ne eredita dieci miliardi (al netto che, in questo secondo caso, lo Stato incassi una cifra molto più cospicua).
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È dunque questo il deficit che conta davvero: la riduzione delle disuguaglianze economiche e sociali e la ridistribuzione della ricchezza fra i cittadini vanno perseguite, per una ragione di equità e giustizia, senza trincerarsi dietro la solita mancanza di risorse. A prescindere dalle politiche economiche che possono essere attuate, il punto è infatti iniziare a rivolgere l’attenzione ai deficit reali delle economie, come questo, senza nascondersi dietro a deficit di bilancio che hanno smesso di essere reali da tempo.
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