Il deficit climatico
È del tutto evidente che l’emergenza climatica e ambientale riguarda l’intero pianeta e tutte le nazioni che lo abitano e non un singolo Paese. È altrettanto evidente, però, che gli Stati Uniti – in quanto Paese altamente energivoro – sia uno dei principali responsabili del problema e perciò sia anche fra i principali attori che dovranno farsi carico della ricerca delle soluzioni.
La responsabilità degli Stati Uniti riguardo il deficit climatico è riassumibile in pochi dati:
- è il secondo maggior produttore al mondo di emissioni di gas serra, con il 15% delle emissioni globali, dietro alla Cina che ne è responsabile per il 25%;
- se però si considera l’emissione di anidride carbonica pro capite, è di gran lunga il maggior produttore fra i cinque Paesi che ne immettono nell’ambiente più di un miliardo di tonnellate l’anno;
- ogni anno immette nell’atmosfera cinque miliardi e quattrocentodieci milioni di tonnellate di CO2;
- anche nelle politiche riguardo l’efficienza energetica gli Stati Uniti sono indietro: secondo il rapporto International Energy Efficiency Scorecard che esamina le performance dei 25 Paesi maggiori consumatori di energia al mondo si collocano al decimo posto, appena sopra la media di tutti i Paesi maggiormente energivori;
- dall’inizio dell’industrializzazione del XVIII secolo il mondo ha emesso oltre 1.500 miliardi di tonnellate di CO2. Un argomento comune è che chi ha aggiunto più CO2 nella nostra atmosfera – contribuendo maggiormente al problema oggi – dovrebbe assumersi la maggiore responsabilità nell'affrontarlo: questo Paese sono gli Stati Uniti che nella storia hanno avuto emissioni di anidride carbonica per 399 miliardi di tonnellate, cioè un quarto delle emissioni accumulatesi in due secoli e mezzo di storia.
Le due pietre di paragone per valutare quanto gli Stati Uniti stiano impegnandosi nella riduzione del rischio di un catastrofico cambiamento climatico sono l’Accordo di Parigi che fissa gli obiettivi sul limite dell’innalzamento della temperatura globale nel XXI secolo e il rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), il principale organismo internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici che invece ipotizza gli scenari cui andremo incontro se non riusciremo a raggiungere gli obiettivi fissati.
L'accordo di Parigi è il primo accordo universale, giuridicamente vincolante sui cambiamenti climatici, adottato alla conferenza di Parigi sul clima (COP21) nel dicembre 2015; l'accordo stabilisce che, per evitare pericolosi cambiamenti climatici, occorre limitare il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2ºC rispetto ai livelli preindustriali e proseguire con gli sforzi per limitarlo a 1,5ºC.
In base all’accordo, i paesi hanno presentato piani generali nazionali per l'azione per il clima, cioè i contributi determinati a livello nazionale (NDC). Con il loro NCD gli Stati Uniti si sono impegnati a ridurre le emissioni di gas serra “al 26-28% al di sotto del suo livello del 2005 nel 2025 e a fare i migliori sforzi per ridurre le sue emissioni del 28%”. L’obiettivo sarebbe di raggiungere una riduzione delle emissioni dell'80% entro il 2050.
Un obiettivo comunque insufficiente a rispettare i limiti previsti dall’Accordo di Parigi, ma in realtà fin dall’inizio disatteso dall’amministrazione Trump che, anzi, già a giugno del 2019 aveva annunciato il suo prossimo ritiro dall’Accordo, cosa poi messa in pratica da Donald Trump il 3 novembre 2020, giorno delle elezioni presidenziali. Il 20 gennaio scorso, nel primo giorno del suo mandato, il presidente Biden ha firmato la richiesta alle Nazioni Unite per rientrare nell’accordo, cosa che avverrà formalmente dopo trenta giorni, ma i quattro anni di inerzia del precedente governo federale hanno pesato sull’impossibilità di raggiungere gli obiettivi fissati dal NDC: solo grazie all’azione di singoli governi statali si potrà forse ottenere da un quinto a un terzo appena delle riduzioni per le quali gli Stati Uniti si erano originariamente impegnati.
La politica energetica dell’amministrazione Trump non si è limitata a sabotare l’accordo di Parigi (che, fra l’altro, prevede un aggiornamento – al rialzo – del NCD entro il 2020, aggiornamento mai fatto dall’amministrazione statunitense) e a cercare di smantellare le iniziative energetiche rispettose dell'ambiente dell'amministrazione Obama: ha varato l'America First Energy Plan, inteso a rinvigorire l'industria carboniera statunitense, espandere la produzione interna di combustibili fossili, tagliare le normative, aprire terre federali per l'esplorazione di combustibili fossili e ridurre il sostegno federale ai programmi climatici e ambientali. Il 6 gennaio scorso, ormai a fine mandato, il presidente Trump ha posto il suggello al suo piano, autorizzando le compagnie di estrazione di gas e petrolio a trivellare ampie zone del più importante parco naturale artico, l’Arctic National Wildlife Refuge in Alaska, Stato che da decenni basa la sua economia sull’estrazione di combustibili fossili.
E in Italia?
Quando si parla di deficit ambientale istintivamente si pensa al cambiamento climatico e non a torto. Il cambiamento climatico è stato studiato a tal punto da predire con una certa confidenza che il riscaldamento globale raggiungerà gli 1,5°C nei prossimi anni, provocando ingenti perdite di vite umane e danni economici. Bisogna tristemente ammettere che lo stato di salute degli ecosistemi difficilmente è tutelato come valore in sé, a eccezione - per esempio - delle zone protette. Nella realtà lo stato dell’ambiente è posto in relazione con gli effetti sull’uomo, sulla sua salute in primis, ma anche con i costi diretti e indiretti provocati da un ambiente modificato o inquinato comunemente denominati “servizi ecosistemici”. Quindi ai fini dei decisori politici, la natura viene monetizzata e solo quando il rapporto costi-benefici sale massicciamente allora vengono messe in pista politiche ambientali più o meno incisive. Il cambiamento climatico è uno di questi casi. Secondo le previsioni, i paesi del Mediterraneo (inclusa l’Italia) dovrebbero prepararsi con grande cautela agli effetti di un clima che presenterà eventi meteorologici estremi sempre più frequenti, intensi e di più lunga durata (periodi di grande pioggia e di grande siccità) e a un innalzamento del livello del mare che minaccerà alcune coste e centri urbani costieri.
Bisogna ammettere che probabilmente non esiste una specificità italiana nel deficit con l’ambiente, né per quanto riguarda la pressione antropica sugli ecosistemi né per le azioni di mitigazione e adattamento intraprese. La politica ambientale, pur con eventuali ritardi di recepimento nella legislazione nazionale, è guidata dalla UE, che difatti ne ha piena competenza. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) sarà l’attuazione all’italiana delle strategie ambientali europee finora elaborate e, per quello che si può intuire a pochi giorni dalla sua finalizzazione (fine aprile), sarà un primo passo verso la transizione ecologica, ma non sarà né risolutivo né equamente distribuito.
- Nel PNRR così come in alcune proposte di green new deal avanzate dalla società civile, si sostiene che destinare la maggior parte dei fondi alle imprese darà poi un ritorno al resto della società sotto forma di nuovi posti di lavoro. Questo principio è solo parzialmente vero: spesso e in mancanza di una partecipazione pubblica i posti di lavoro generati sono inferiori alle aspettative; questi nuovi posti di lavoro in ambito tecnologico saranno in parte coperti dagli impiegati attuali del settore Oil&Gas, e infine ci sono lavori non tecnologici di cui ci sarà bisogno e/o che dovranno essere tutelati. Rispetto al PNRR bisogna inoltre notare che esso è largamente costituito da progetti “spot” da realizzarsi come apripista; gli interventi strutturali si concentrano sulla semplificazione dei procedimenti amministrativi propedeutici alla loro realizzazione, ma manca un quadro strutturale-normativo di insieme che dovrà essere (sperabilmente) sviluppato in seguito.
- Il settore energetico, in grande fermento in Italia dopo l’approvazione del Piano nazionale Integrato Energia e Clima 2030 (PNIEC), ha in atto molti iter autorizzativi per aumentare la potenza elettrica generata da gas naturale e installare sistemi di accumulo a batteria per stabilizzare la rete via via che aumenterà il contributo delle fonti rinnovabili. La dismissione definitiva del carbone è prevista per il 2025 (con possibili deroghe ad alcuni impianti considerati strategici per la rete elettrica nazionale). Il PNRR destina svariati miliardi per la creazione di parchi eolici e fotovoltaici off-shore e per lo sviluppo della filiera italiana dell’idrogeno verde, includendo idrolizzatori e turbine a gas alimentate a idrogeno. Se si includono le linee di finanziamento per il rinnovo e l’elettrificazione del parco dei mezzi pubblici di trasporto si arriva a 17 miliardi. Alla mobilità sono dedicati altri 32 miliardi per la realizzazione di grandi infrastrutture (a esempio il potenziamento delle linee ferroviarie ad alta velocità). Quindi, 49 miliardi andrebbero al settore energia-trasporti, gran parte dei quali destinato a grandi imprese (delle quali si potrebbe già fare l’elenco) e a grandi opere (il cui contributo all’emissione di gas serra non è stato valutato, anche con la giustificazione dei tempi stretti). Il PNRR manca però di una strategia integrata per il trasporto urbano/periurbano che avrebbe un notevole impatto sulla vita di una buona fetta di italiani.
- La riconversione del settore manifatturiero(petrolchimica, fertilizzanti, ecc.), che a eccezione dell’Ilva manca nel PNRR, potrebbe vedere l’allargamento della platea anche a PMI. Questa infatti passa largamente anche dalla creazione locale e nazionale di reti circolari di materia ed energia, riconversione produttiva e da una legislazione più incisiva verso il recupero e l’eliminazione degli imballaggi. Azioni di questo tipo presuppongono strategie integrate e forte coinvolgimento degli stakeholder locali (non solo progetti calati dall’alto). Questa parte è fortemente sottovalutata nel PNRR, con un finanziamento complessivo di circa 5 miliardi, parte dei quali andranno per l’ammodernamento e la costruzione di nuovi impianti di trattamento dei rifiuti e parte al settore agricoltura. Una nota positiva è il finanziamento di progetto relativi al biogas prodotto dalla fermentazione anaerobica di rifiuti organici.
collage di Uğur Gallenkuş da "Parallel Universes" |
Ma il deficit ambientale non si esaurisce in quello climatico
- Nel PNRR le grandi opere fanno la parte del leone. Al contrario, tutto un recente filone di ricerca propone le “nature based solutions” come opzioni da affiancare a quelle di natura “tecnologica”: l’idea di fondo è quella di dare spazio alla natura affinché ristabilisca un buono stato di salute degli ecosistemi. D’altronde, anche se poco noti all’opinione pubblica, stanno emergendo studi interessanti a supporto della dipendenza della natura umana dal contatto con la natura: a esempio, l’insorgenza di patologie croniche allergeniche, intestinali, respiratorie possono dipendere dal non contatto con la biodiversità naturale nei centri urbani. L’uomo e la natura sono in relazione biunivoca e meno lo si comprende e più si allontana l’utopia di una “società della cura”. Nel PNRR sono allocati soldi residuali (alcuni recentemente aggiunti) alle “nature-based solutions”: rimboschimento come azione di mitigazione all’aumento della CO2 in atmosfera e l’inverdimento delle aree urbane, anche come protezione alle ondate di calore che sempre più spesso si abbatteranno sulle nostre città, colpendo i soggetti più fragili.
- L'agricoltura, insieme alla pesca, sarà un comparto molto vulnerabile al cambiamento climatico in Italia, soprattutto a causa di prolungate siccità e diffusione di vecchi e nuovi patogeni che potrebbero essere di gran lunga più importanti della maggiore resa dovuta all’effetto di fertilizzazione della CO2 in atmosfera. La risorsa idrica in Italia, soprattutto quella pregiata, dovrà essere valorizzata. Eppure il PNRR non prevede molto spazio per il riutilizzo dell’acqua, anche piovana, in ambito industriale o agricolo (dove ancora una parte cospicua della risorsa idrica usata è prelevata dai pozzi) o per il risparmio dell’acqua potabile in ambito residenziale. Invece, verranno finanziati progetti volti a diminuire la dispersione idrica negli acquedotti; benché il fine sia lodevole, bisogna però considerare che beneficeranno di questi finanziamenti i soggetti gestori della distribuzione e trattamento delle acque potabili che con le privatizzazioni sono società di diritto privato, che vantano notevoli utili dalla gestione di un bene pubblico e comune, e che dovrebbero essere obbligati a realizzare questi lavori di manutenzione e ammodernamento.
- La biodiversità, con un popolamento ricchissimo di forme endemiche sia vegetale che animale, è una ricchezza per l'Italia, eppure è stata sempre sottovalutata, nonostante organizzazioni ambientaliste come il WWF ed enti pubblici come l’ISPRA abbiano denunciato i danni arrecati alla flora e alla fauna del Paese e avanzino proposte concrete per affrontare il problema. La Strategia sulla biodiversità per il 2030, tardivamente adottata dalla UE, è un primo esperimento di ripristino ambientale e di tutela della biodiversità. In Italia occorrerebbe creare un Piano Nazionale di tutela della biodiversità innanzitutto per contrastare il continuo consumo di suolo e migliorare la tutela degli ecosistemi e della biodiversità; per salvaguardare il patrimonio boschivo favorendo il rimboschimento naturale delle sponde di fiumi e laghi; per incidere sul Regolamento della Politica Agricola Comune post 2020, approvato per ora solo in via transitoria, includendo nelle aree EFA (Ecological focus area) solo quelle infrastrutture verdi funzionali alla tutela della biodiversità e, in particolar modo, alla fondamentale difesa degli impollinatori.
- L’ultima riflessione riguarda un tema di attualità, visto che quest’anno ha riguardato una linea di finanziamento dei bandi Horizon 2020, che però non ha trovato spazio nel PNRR: quello dello “zero pollution”. L’inquinamento progressivo a cui siamo soggetti riguarda l’aria (soprattutto dovuto al riscaldamento domestico e al traffico, e in talune zone anche alle attività industriali), l’acqua (sempre più contaminata da inquinanti emergenti come nanoparticelle e inquinanti organici persistenti che non sono trattenuti dagli attuali sistemi di trattamento delle acque) e il cibo attraverso l’inquinamento del suolo. Per esempio, l’Italia in ambito europeo non ha appoggiato l’adozione di una direttiva sul suolo, probabilmente a causa della presenza di aree fortemente inquinate come la terra dei fuochi o come il basso Veneto interessato dall’inquinamento diffuso di sostanze perfluoroalchiliche (PFAS, come il Teflon o il Gore-Tex), ma anche a protezione di colture pregiate come i vitigni che però sono soggette a pratiche agronomiche non sostenibili. Mentre esistono dati che correlano morti e malattie all’inquinamento atmosferico, l’inquinamento dell’acqua e del cibo è ancora un territorio vergine, ma con un sicuro effetto negativo sulla salute umana. L’accumulo continuo di inquinanti in matrici come l’acqua e il suolo in cui l’eventuale trattamento è difficile oltre che lento, ci espongono a sfide difficilissime in futuro ma che oggi preferiamo non affrontare.
La risposta al cambiamento climatico passa, come già detto, sia attraverso azioni di mitigazione (riduzione delle emissioni di gas serra e sequestro della CO2) che di adattamento al clima futuro. Mentre le prime sono necessarie per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C, le seconde vanno nella direzione di alleviare le disparità di quelle comunità e categorie sociali che subiranno maggiormente gli effetti del cambiamento climatico. Una transizione ecologica equa, quindi, dovrebbe prevedere entrambe le tipologie di azioni. Invece, molta enfasi è posta sulle azioni di mitigazione, tipicamente a vantaggio delle grandi aziende e multinazionali, e poca su quelle di adattamento.
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A prescindere dalle politiche economiche che possono essere attuate il punto è iniziare a rivolgere l’attenzione ai deficit reali delle economie, come questo, senza nascondersi dietro a deficit di bilancio che hanno smesso di essere reali da tempo.
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