Il deficit di istruzione
"
Negli Stati Uniti il deficit di istruzione risiede nei costi da affrontare per completare il ciclo scolastico, soprattutto universitario e post-laurea, cioè in pesanti debiti per i genitori e – successivamente – per gli studenti entrati nel mondo del lavoro.
In Italia – oltre alla farraginosità di norme continuamente sostituite – il deficit sta nella spesa pubblica per istruzione e ricerca: in entrambi siamo agli ultimi posti in Europa e nell’OCSE, sia in rapporto al PIL che sul totale della spesa.
Questo deficit riguarda l’intero sistema scolastico statunitense, dall’età prescolare all’istruzione universitaria.
- Negli Stati Uniti gli asili sono quasi tutti privati: la retta media mensile è di 760 dollari, una cifra non certo irrisoria che, nonostante i sussidi statali per le famiglie a basso reddito, impedisce l’accesso ai bambini delle famiglie meno abbienti. Questa spesa colpisce particolarmente le famiglie in cui entrambi i genitori (o l’unico genitore convivente) lavorano e non hanno nessuno cui affidare i propri figli;
- la scuola dell’obbligo – dai 6 ai 18 anni, comprendente elementary-, middle- e high-school – è invece interamente pubblica, ma anche qui persiste una discriminazione economica ed etnica. Infatti, in ogni distretto le spese per la gestione delle scuole sono finanziate dalle entrate delle imposte locali sugli immobili. Nei quartieri residenziali bianchi il gettito di queste imposte è molto maggiore di quello dei quartieri abitati prevalentemente da afroamericani o ispanici e ovviamente consente una maggiore qualità del servizio scolastico, con l’acquisto di un numero maggiore di dispositivi didattici, incentivi per il personale docente e locali più accoglienti e salubri;
- dove la disuguaglianza è più stridente è però nell’istruzione superiore. Il sistema economico statunitense spinge per prolungare il ciclo di studi all’università e, spesso, a corsi post-laurea qualificanti: i datori di lavoro frequentemente richiedono un diploma di laurea o un master, anche per assumere persone in mansioni che non la richiederebbero. Così la maggior parte dei giovani, esaurito l’obbligo scolastico, sono costretti a seguire corsi universitari per avere maggiori chance di entrare nel mercato del lavoro. Il problema sono i costi, più che raddoppiati in un trentennio: le università più prestigiose, tutte private, hanno in media rette per un corso quadriennale di oltre trentamila dollari; quelle pubbliche, più economiche ma meno qualificanti, arrivano ugualmente a circa diecimila dollari. La maggior parte degli studenti universitari deve contrarre debiti per frequentare i corsi, debiti che dovrà estinguere quando comincerà a lavorare, ma molti non ce la fanno: il tasso di abbandono degli studi è molto alto e, ancora una volta maggiore nella popolazione studentesca nera, un terzo della quale – se ha contratto un debito scolastico – non termine il ciclo di studi, prevalentemente perché non se li può più permettere;
- Si calcola che le tasse universitarie pesino su 45 milioni di americani con un debito pari a 1.600 miliardi di dollari. Nella crisi finanziaria del 2008, il governo federale dovette intervenire per rilevare le sofferenze bancarie attraverso un programma apposito, il Trouble Asset Relief Program, fornì liquidità agli istituti bancari per circa 450 miliardi di dollari; dieci anni dopo il problema delle sofferenze bancarie si è riproposto proprio per l’insolvenza dei debiti studenteschi che ammontano – secondo le stime degli analisti – a oltre 331 miliardi di dollari; il debito contratto durante gli studi superiori si ripercuote anche sulla vita dei giovani lavoratori che devono destinare una quota parte del proprio reddito per estinguere il debito, spesso adattarsi a vivere in un’abitazione più modesta e ridurre le spese allo stretto necessario.
Gli economisti della MMT ritengono che la cancellazione dei debiti universitari da parte del governo federale produrrebbe effetti positivi sull’economia del Paese nell’arco di un decennio: il patrimonio netto e il reddito disponibile delle famiglie aumenterebbero, spingendo nuovi consumi e investimenti; il bilancio statale potrebbe rientrare in pochi anni della spesa fatta e i conti pubblici migliorerebbero.
E in Italia?
Il deficit scolastico è sotto gli occhi di tutti: di chi non ha ancora completato il suo corso di studi; dei genitori che hanno figli in età scolastica; dei docenti di ogni ordine e grado; dei datori di lavoro che valutano il livello di competenze degli aspiranti a ricoprire una mansione.
Gli ultimi vent’anni sono stati sufficienti per distruggere gran parte del sistema scolastico, vanto italiano in tutta Europa, faticosamente costruito fra il 1962 (anno dell’introduzione della scuola media unica, con l’abolizione delle differenziali, cioè le classi scolastiche destinate ad alunni disabili o affetti da disturbi dell'apprendimento o problemi di socializzazione) e il 1977, con la riforma che ha trasformato – anche grazie alle proteste studentesche della fine degli anni Sessanta – una scuola tradizionale, selettiva e con un forte impronta cattolica e conservatrice in una scuola moderna più orientativa, aperta alla partecipazione (con l’istituzione degli organi collegiali), pensata per tutti senza discriminazioni per capacità o deficit psichici o fisici, volta a valorizzare le personalità (il che motivava anche il passaggio dal voto numerico alla scheda/giudizio). A partire dal 2000, su questo sistema scolastico si sono accaniti sia un recuperato approccio pedagogico medievale che una vera e propria macelleria educativa.
Anche in Italia questo deficit riguarda l'intero sistema scolastico:
La scuola materna e quella d'infanzia :
sono poche le regioni che possono vantare una adeguata disponibilità di posti all'interno delle scuole statali per i più piccoli. La maggior parte sopperisce con istituti privati e comunali i quali spesso hanno rette che non tutte le famiglie possono permettersi, in particolare se si hanno più figli. A questo sovente si aggiunge (sia nel pubblico che nel privato) la richiesta di un contributo mensile non ufficiale per l’acquisto di “materiale da laboratorio”.
La scuola dell'obbligo:
- il rigore dei conti ha prodotto la drastica riduzione del corpo docente che è stata ulteriormente aggravata dalla (fallimentare) reintroduzione del maestro unico nella scuola primaria, sostituito poi – dopo tre anni di sperimentazione – dal “maestro unico prevalente” e il conseguente aumento del numero di alunni per classe con le cosiddette classi pollaio (fino a 27 nella scuola primaria e fino a 33 in quella secondaria);
- la sostanziale elusione – in nome di un malinteso principio di sussidiarietà - del divieto costituzionale a finanziare l’istruzione privata, con l’ipocrito escamotage di elargire contributi alle famiglie degli studenti, anche se a recepire i fondi erano poi le scuole private;
- la riforma del secondo ciclo dell’istruzione mirava, attraverso la rimodulazione dell’offerta formativa, a ridurre la frammentazione degli indirizzi, e voleva creare un collegamento tra formazione scolastica e sbocco nel mondo del lavoro, ha ottenuto l'effetto opposto. Ci troviamo oggi, anche grazie all'autonomia concessa alle scuole nel determinare piani di studio diversi da quelli previsti a livello nazionale, ad una maggiore confusione dei piani di studio e l'esperienza dell’alternanza scuola-lavoro si è spesso dimostrata deludente e frustrante per i giovani.
L'Università:
- per cercare di dare maggiore specificità ad una formazione universitaria ritenuta troppo teorica e generica, si è introdotta la riforma dei livelli con la formulazione di una laurea di primo livello che non dà accesso al mondo del lavoro (un quarto dei laureati ai corsi triennali non ha ancora trovato un’occupazione dopo quattro anni dal conseguimento del diploma);
- contestualmente c'è stata la riduzione delle borse di studio che ha impedito a tanti l’accesso alla formazione universitaria o la continuazione dei livelli a causa dei continui tagli ai fondi per il diritto allo studio. A questo hanno fatto seguito, nella linea che sembra disincentivare gli studi superiori, i tagli al fondo di finanziamento ordinario delle università che, con un contestuale aumento percentuale della quota premiale per gli atenei considerati di eccellenza, ha incrementato ulteriormente il divario fra le diverse sedi universitarie e fra coloro che hanno la possibilità o meno di potersi trasferire nei migliori centri universitari;
- infine continua la crescita esponenziale dei precari nella ricerca universitaria pubblica, che vanifica l'investimento nella formazione di persone qualificate - che potrebbe essere ripagato con centri di ricerca dotati di migliori attrezzature e un migliore trattamento economico - costringendo i più capaci, se intendono continuare l’attività di ricerca, all'emigrazione (la cosiddetta “fuga dei cervelli”).
Tutti questi deficit hanno anche una ricaduta statistica, puntualmente rilevata dal rapporto annuale dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) “Uno sguardo sull’educazione”:
- la dispersione scolastica, cioè la percentuale di giovani che abbandonano precocemente l’istruzione, è stata del 13,5% nel 2019, molto distante dalla media europea del 10,2%;
- anche qui aumenta il divario fra gli studenti in base alla residenza, al genere e alla nazionalità: la dispersione è del 9,6 % nel nord-est, mentre arriva al 16,7% nel sud; il 15,4% dei ragazzi abbandona gli studi contro l’11,3% delle ragazze; il 32,5% è il tasso di abbandono scolastico per i giovani nati all’estero (la media europea è del 22,2%.), mentre per chi è nato in Italia è solo dell'11,3%;
- tra i giovani di età fra i 24 e i 34 anni, il numero di laureati è del 20%, rispetto a una media OCSE del 30%, con l'Italia al penultimo posto fra gli Stati membri dell'UE per i laureati di età compresa tra i 30 e 34 anni, seguita solo dalla Romania;
- se poi si considera il tasso di competenze in lettura e matematica, i laureati italiani occupano la casella 26 su 29 Paesi OCSE, il che fa il paio con il dato dei 13 milioni di adulti che in Italia hanno competenze “di basso livello”;
- se poi la laurea magistrale dà le maggiori possibilità di accesso al mondo del lavoro (l’85% di occupati entro quattro anni dal diploma), non sempre garantisce un’occupazione adeguata: oltre un terzo dei lavoratori è occupato in un settore non affine ai propri studi.
Il deficit di istruzione è stato poi aggravato dalle restrizioni imposte dalla pandemia, oggetto di un’integrazione del rapporto OCSE:per molti mesi le scuole sono rimaste chiuse o aperte in modalità ridotta. La didattica a distanza ha consentito di garantire la continuità didattica, ma con diversi limiti poiché sia la scuola che le famiglie non erano preparati a questa nuova modalità educativa. In definitiva, la didattica a distanza si è dimostrata un utile strumento, ma ha anche reso evidenti i vantaggi della didattica tradizionale, che permette di apprendere a contatto con gli insegnanti e i loro coetanei.
<<< --->>>
A prescindere dalle politiche economiche che possono essere attuate il punto è iniziare a rivolgere l’attenzione ai deficit reali delle economie, come questo, senza nascondersi dietro a deficit di bilancio che hanno smesso di essere reali da tempo.
<<< --->>>
Potrebbe anche interessarti:
Il deficit di buoni posti di lavoro