Il deficit di infrastrutture



Se il sistema infrastrutturale di una nazione consente alla società e alla sua economia di funzionare in maniera fluida, in Italia le infrastrutture non svolgono questo compito dalla fine degli anni '60.


Quotidianamente imbottigliati nel traffico… strade regolarmente chiuse a causa dei lavori per riparare buche che continuano a rispuntare fuori… arrivare tardi al lavoro, in classe o a un appuntamento perché i mezzi di trasporto pubblico erano in ritardo o si erano guastati… stare seduti per ore nella sala d’attesa del pronto soccorso prima di essere visitati… rimanere nel letto d’ospedale in corridoio, una volta ricoverati, in attesa che si liberi una stanza…

Sembra la purtroppo abituale descrizione della vita in una grande città italiana, ma gli stessi disservizi si registrano negli Stati Uniti, il cui sistema di infrastrutture lascia molto a desiderare. E le alluvioni, gli incendi boschivi, l’inquinamento dell’acqua potabile da metalli pesanti, il crollo di un ponte ne sono semplicemente conferme evidenti.

La carenza di investimenti nel sistema delle infrastrutture nazionali – vera spina dorsale di ogni economia – lo sta sgretolando: durante il suo mandato, Donald Trump non ha dato avvio all’annunciato piano infrastrutturale, nonostante la grande necessità di ripristinare, modernizzare ed espandere le malconce infrastrutture americane. “Ripareremo le nostre città interne e ricostruiremo le nostre autostrade, ponti, tunnel, aeroporti, scuole, ospedali” aveva detto nel suo primo discorso dopo essere stato eletto nel 2016 “E impiegheremo milioni di persone per ricostruire tutto questo”. Ma i duecento milioni di dollari che dovevano attivare un piano da un miliardo e mezzo non sono mai stati stanziati.

Eppure, strade, ponti, dighe, argini, scuole, ospedali, ferrovie, reti elettriche, banda larga, trattamento dei rifiuti e dell’acqua consentono alla società e alla sua economia di funzionare.

Fra tutti, il deficit più rilevante è quello abitativo, un deficit che si è aggravato dopo la crisi finanziaria del 2008 (non a caso innescata dallo sgonfiarsi della bolla immobiliare – cioè il rapido aumento speculativo del prezzo delle abitazioni – e dalla contestuale insolvenza dei mutui subprime negli Stati Uniti). L’emergenza si riflette anche nella diversa composizione dei quasi seicentomila homeless, i senza fissa dimora secondo i dati – probabilmente sottostimati – ufficiali: il nome richiama subito la classica figura del vecchio barbone, bianco e alcolizzato, sdraiato sui marciapiedi delle grandi città, ma oggi un terzo degli homeless è costituito da famiglie che, perduta la casa, sono costretti a dormire nella propria auto o, se fortunati, in un camper. Milioni sono poi le famiglie che vivono in abitazioni precarie, temporanee e sovraffollate, vittime sia della facilità con cui vengono eseguiti gli sfratti degli inquilini morosi (sono milioni ogni anno), sia della norma – presente in tutti gli Stati Uniti, seppure con diverse modalità – della cosiddetta Blighted Property, cioè proprietà degradata. Se una casa è fatiscente, insicura o semplicemente inabitata da tempo può essere segnalata da chiunque, anche solo da un vicino, all’autorità pubblica che interviene obbligando il proprietario ai lavori di ristrutturazione e restauro; se non lo fa, l’ente pubblico fa realizzare i lavori direttamente, attribuendone però il costo al proprietario che, se impossibilitato a pagare, perde ogni diritto sulla propria abitazione.

Inoltre piani regolatori di molte città americane ostacolano la costruzione di nuove case: così ci sono meno abitazioni del necessario e affittate a prezzi più alti, il che contribuisce a privare le famiglie povere di luoghi sicuri e sani in cui vivere. La maggior parte delle famiglie che non possiedono l’appartamento dove vivono spende per l’affitto oltre il 30% del proprio reddito (per sei milioni e mezzo di americani oltre il 50%), cioè oltre il livello giudicato sostenibile. Come sempre, a farne le spese sono le minoranze etniche: fino agli anni Sessanta del secolo scorso c’erano norme – scritte e non scritte – per impedire che afroamericani potessero acquistare casa nei quartieri per bianchi; cinquant’anni dopo l’abolizione di queste discriminazioni gli afroamericani proprietari della loro abitazione sono percentualmente meno di allora (solo un terzo della popolazione nera).

Una possibile soluzione all’emergenza abitativa sarebbe riprendere la proposta contenuta nel programma elettorale alle ultime primarie democratiche di Elizabeth Warren: il suo Housing Plan for America prevede di spendere 500 miliardi di dollari in dieci anni per costruire, conservare e ristrutturare più di tre milioni di unità che saranno accessibili alle famiglie a basso reddito. La maggiore disponibilità di alloggi consentirebbe di abbassare gli affitti del 10%, creerebbe un milione e mezzo di posti di lavoro e sarebbe un primo passo importante verso la riduzione della disuguaglianza razziale nella ricchezza.

E in Italia?

Un buon livello delle infrastrutture ha svolto il suo ruolo, sia come presupposto che come conseguenza, del miracolo economico che l’Italia ha vissuto fra la fine degli anni '50 e l’inizio degli anni '60 del secolo scorso. Una rete ferroviaria diffusa particolarmente nel Settentrione, in parte eredità dell’epoca fascista, e una razionalizzazione del settore energetico (nascita dell’ENI nel 1953 e dell’ENEL nel 1962) hanno consentito la ricostruzione e la crescita industriale, mentre un importante contributo all’economia era venuto dagli investimenti pubblici nell’edilizia residenziale (piano INA-Casa 1949-63), nella costruzione di una efficiente rete stradale e - successivamente - autostradale, nelle telecomunicazioni (fusione delle società telefoniche nella SIP nel 1964 e avvio della trasmissioni televisive da parte della RAI fra il 1954 e il 1957) e in quell’infrastruttura immateriale che è la ricerca scientifica (con il potenziamento del CNR negli anni '50, anni che segnarono l’avvio della CEE, della CECA, dell’EURATOM). Poi, dalla fine degli anni '60 in poi, con il crollo degli investimenti privati e l’insostenibile indebitamento delle aziende pubbliche riunite nell’IRI, è iniziato un lento degrado che ha portato alle privatizzazioni, più o meno riuscite, del sistema infrastrutturale italiano, dove all’interesse pubblico si è privilegiata la massimizzazione del profitto privato.

Se dunque il sistema infrastrutturale di una nazione consente alla società e alla sua economia di funzionare in maniera fluida, in Italia le infrastrutture non svolgono questo compito proprio dalla fine degli anni '60. Questa è una frustrazione generale che viviamo quotidianamente con l'eccessiva quantità di tempo spesa per avere un servizio - che siano le file agli uffici pubblici, ai pronto soccorso degli ospedali, l'attesa di mezzi pubblici sempre più rari e affollati o il tempo per trovare un parcheggio fuori le scuole - e il ricorso costante (se non obbligatorio come capita nelle aree dell'entroterra e praticamente in tutto il sud Italia) all'utilizzo di mezzi privati per ogni esigenza familiare o lavorativa.

A volte il deficit infrastrutturale diventa tragicamente evidente:il ponte Morandi a Genova nell'agosto del 2018 è stato uno schiaffo all'incapacità di una intera nazione di pensare e pianificare la manutenzione delle infrastrutture esistenti. Solo quando in un attimo 43 persone hanno perso la vita, ci siamo resi conto che ponti, viadotti e interi pezzi di autostrade sono completamente pericolanti in tutto il Bel paese. Nel 2008 a Rivoli (Piemonte) un ragazzo di 17 anni è morto in classe a causa del cedimento del soffitto eppure una politica di monitoraggio e messa in sicurezza efficace non c'è, tanto che ancora nel 2020 ci sono notizie di crolli di soffitti nelle scuole.

la rete ferroviaria, la rete autostradale, la dispersione della rete idrica per uso civile, la percentuale di comuni con almeno un provider attivo con fibra ottica

Il deficit delle infrastrutture, da sempre e ancora di più oggi, rende ancora più evidente la diseguaglianza territoriale tra nord e sud Italia. Basta vedere la mappa delle infrastrutture di mobilità (autostrade e ferrovie) per capire che in alcune regioni non si consente alla società e alla sua economia di funzionare. C’è un solo capoluogo in Italia dove non arriva la rete ferroviaria nazionale ed è al sud: Matera. Per quanto riguarda la fatiscenza della rete, solo 2 anni prima del crollo a Genova del ponte Morandi, in Puglia persero la vita in un incidente ferroviario 23 persone. Una linea ferroviaria a un solo binario (come il 90% delle linee ferroviarie che servono l'entroterra), due treni e una incomprensione fra due capistazione che erano l'unico controllo di sicurezza della linea. Errore umano, certo, dovuto però a una carenza nella infrastruttura ferroviaria.

C'è anche qui una cattiva politica di pianificazione e una visione poco lungimirante del sistema Italia: le autostrade in Sicilia versano in pessimo stato e le ferrovie sono un disastro completo (da Messina a Palermo 3 ore e mezza per percorrere un tratto simile a Roma Napoli), ma da 2 decenni la politica nazionale parla del ponte sullo stretto di Messina che porterebbe a velocizzare la traversata di 15/20 minuti. Cosa renderebbe più fluida la società e l'economia nazionale?

I due porti più importanti del mezzogiorno per scambio merci - Gioia Tauro e Augusta - potrebbero costituire il complemento ai due grandi porti del nord Italia (Genova e Trieste) per permettere al Paese di competere ad armi pari con i grandi porti del nord Europa. Sviluppare quest'altro grande polo nel sud diventa una questione nazionale, ma a collegare il gateway calabrese al nord Europa ci sono ancora infrastrutture ferroviarie insufficienti.

L’acqua è un bene sempre più prezioso in tempi di crisi climatica, ma se in Italia il consumo pro capite è ridotto (215 litri al giorno per abitante), molto alta è la quantità di acqua sprecata (156 litri pro capite/die) a causa di una rete idrica vecchia, inefficiente e gestita in modo troppo parcellizzato. Secondo l'Istat il 42% dell’acqua immessa nella rete idrica va perduta prima di arrivare al consumatore e, ancora una volta, è confermato il divario Nord-Sud: le cinque regioni con la minore dispersione idrica (fra il 20% e il 30%) è nell’Italia settentrionale, mentre le cinque regioni meno efficienti (con perdite dal 50% a oltre il 60%) sono tutte del centro-sud.

Queste carenze che insistono sempre nelle stesse aree - sud, isole ed entroterra - esistono anche per infrastrutture sanitarie e educative e comportano una lucrativa emigrazione da queste aree verso le strutture di cura così come verso le strutture universitarie del nord del paese, in una prospettiva dell'Italia molto provinciale e poco lungimirante.

Infine, la crisi pandemica ha fatto emergere la necessità di vivere in luoghi meno congestionati e la possibilità con lo smart working di scegliere dove poter lavorare. L'Italia, con il 70% dei comuni italiani che ha meno di 5000 abitanti, è il paese dei borghi e un incremento di infrastrutture di connessione informatica e di miglioramento di accesso stradale verso questi piccoli centri potrebbe essere un volano di crescita per l'entroterra e un richiamo anche per gli stranieri desiderosi di vivere il made in Italy.

<<< --->>>

A prescindere dalle politiche economiche che possono essere attuate il punto è iniziare a rivolgere l’attenzione ai deficit reali delle economie, come questo, senza nascondersi dietro a deficit di bilancio che hanno smesso di essere reali da tempo.


 

<<< --->>>

 

Potrebbe anche interessarti:

Il mito del deficit

Il deficit democratico

Il deficit climatico

Il deficit di cure sanitarie

Il deficit di istruzione

Il deficit di risparmio

Il deficit di buoni posti di lavoro


Post popolari in questo blog

Il pezzo sovraccarico

Il deficit di istruzione

La libertà in una società complessa: pandemia, collasso climatico e individualismo dispotico