Kafala, lo schiavismo sul Golfo Persico
“Non parlo del costo del lavoro a Riad perché, in quanto italiano, sono molto invidioso…”
(Matteo Renzi al Principe saudita Mohammed Bin Salman, 28 gennaio 2021)
Nel diritto islamico la kafala (garanzia) è stata istituita a tutela dei minori orfani abbandonati; per i musulmani, infatti, non è possibile l’adozione, in quanto il rapporto padre-figlio è sancito solo da un legame diretto di sangue e non può essere surrogato neppure da un parente stretto.
La kafala consente a un adulto o una coppia di prendere in affidamento un minore. Questo conferisce all’affidatario (kafeel in arabo) il diritto-dovere della custodia del minore, ma non gli attribuisce né la sua tutela né la sua rappresentanza legale.
Questo istituto è stato più volte criticato in Occidente perché può consentire lo sfruttamento minorile e gli abusi sessuali, oltre a favorire il fenomeno delle spose bambine.
Benché nell’arco di poco più di un decennio in molti Paesi arabi mediorientali sia stata abolita ogni forma di schiavitù, di cui invece la tradizione islamica e il Corano ammettono la pratica, anche se in molti passi liberare degli schiavi è considerato un gesto pio e buono, nei Paesi produttori di petrolio dell’area del Golfo Persico l’arrivo di ingenti quantità di denaro, i cosiddetti petrodollari, frutto del vertiginoso aumento del prezzo dell’oro nero nel 1973, ha comportato che la kafala sia stata estesa agli immigrati adulti, impiegati come manodopera non qualificata, soprattutto nei settori dell’edilizia e dei servizi domestici.
I Paesi che ricorrono massicciamente a questo espediente sono: Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar, cui si aggiungono – ma solo per il lavoro domestico – Giordania e Libano. Gli immigrati provengono solo in parte da Paesi vicini (Egitto, Etiopia, Palestina, Iran), perché la maggioranza viene da: India, Filippine, Pakistan, Nepal, Bangladesh, Sri Lanka.
Il sistema della kafala dà ad aziende e a privati cittadini in Giordania, Libano e nella maggior parte dei Paesi arabi del Golfo un controllo quasi totale sull'impiego dei lavoratori migranti e sul loro status come immigrati.
Questa “nuova” kafala infatti trasforma il lavoratore immigrato in uno schiavo alla mercé del suo kafeel (di solito un’agenzia di impiego, un datore di lavoro o anche un privato cittadino): riceve una paga mensile molto inferiore alla media (in Arabia il salario medio di un migrante è di 250 dollari, quando quello di un saudita è di 1.300 dollari e di una saudita poco più di 600); spesso non conosce neppure i termini del suo contratto di lavoro, redatto esclusivamente in arabo davanti a un notaio; non può cambiare lavoro, neppure dopo la scadenza del contratto, senza il permesso del kafeel; non può lasciare il Paese, il che è reso anche impossibile dal fatto che il datore di lavoro solitamente trattiene illegalmente i suoi documenti; non ha alcuna tutela, né sindacale né personale; può essere privato del cibo o delle cure sanitarie; spesso è oggetto di insulti razziali da parte del suo datore di lavoro o dei suoi collaboratori arabi…
I sei Paesi del Golfo Persico, grazie al “mare” di idrocarburi custodito nel loro sottosuolo (si stima contenga il 44% delle riserve mondiali di petrolio e il 15% delle risorse di gas naturale), hanno potuto accumulare qualcosa come duemila miliardi di dollari in ricchezza finanziaria, per cui hanno aumentato esponenzialmente la domanda di forza lavoro da impiegare non solo nell’industria petrolifera, ma anche nell’edilizia e nelle infrastrutture. La domanda di manodopera è aumentata negli ultimi anni, con la decisione di quasi tutti i Paesi di diversificare la propria economia, in vista di un futuro, prevedibile calo della domanda globale di combustibili fossili.
Così, negli ultimi trent’anni gli immigrati nei sei Paesi della penisola arabica sono passati da poco più di otto milioni a quasi trenta; se i lavoratori stranieri rappresentavano nel 1990 poco più di un terzo dell’intera popolazione, oggi sono la maggioranza assoluta, con punte negli Emirati Arabi Uniti, in Qatar e nel Kuwait, dove ormai sono diventati la totalità degli occupati.
Questa crescita impetuosa ha però spinto le principali organizzazioni non governative – come Amnesty International e Human Rights Watch – a denunciare le condizioni di sfruttamento della manodopera immigrata e sia le Nazioni Unite che l’Organizzazione Internazionale del Lavoro a fare pressioni sui Paesi che adottano la kafala perché la aboliscano o almeno ne eliminino le clausole che maggiormente privano il lavoratore dei suoi diritti fondamentali.
Le pressioni si sono moltiplicate sugli Stati che hanno ospitato oppure organizzeranno eventi internazionali: così sull’Arabia Saudita dove si è tenuto nel novembre 2020, seppure in videoconferenza per la pandemia, l’annuale vertice del G20; sugli Emirati Arabi Uniti cui è stata assegnata l’organizzazione dell’Expo 2020, la cui inaugurazione è stata spostata a ottobre 2021; sul Qatar che organizzerà nel 2022 i campionati mondiali di calcio.
Ai soprusi insiti nel sistema kafala se ne aggiungono poi altri nel caso si tratti delle persone (per la maggior parte donne) impiegate nei lavori domestici, soprattutto in Libano: sovente vengono segregate nella casa dove sono ospitate, sottoposte a carichi di lavoro eccessivi e, spesso, vittime di abusi sessuali. Le denunce per le condizioni di sfruttamento delle collaboratrici domestiche in Libano e le pressioni delle organizzazioni internazionali su Beirut perché abolisca la kafala. In questo caso sono stati i media a dare risalto alle manifestazioni delle domestiche che, prima a giugno del 2018 e poi a maggio 2019, erano scese in strada per denunciare le loro condizioni di sfruttamento. Nel 2020 la situazione si è ulteriormente aggravata: la pesante crisi economica, umanitaria e sanitaria che ha colpito il Paese ha spinto molti datori di lavoro a licenziare le collaboratrici domestiche. Ha fatto scalpore il caso delle trentasette ragazze etiopi letteralmente abbandonate davanti ai cancelli della loro ambasciata nel giugno scorso e rimaste accampate per giorni prima che la Caritas se ne facesse carico.
Qualche risultato è stato ottenuto, ma più sul piano di un futuro, parziale allentamento delle misure che della loro abolizione.
- In Arabia Saudita il Ministero delle risorse umane e dello sviluppo sociale ha annunciato a ottobre 2020 che stava “lavorando a molte iniziative per organizzare e sviluppare il mercato del lavoro, e sarà annunciato non appena sarà pronto”. Ma, appena un mese dopo fonti interne al Ministero hanno precisato che non si tratterà di un’abolizione del sistema kafala, ma di un allentamento delle sue restrizioni: la riforma dovrebbe entrare in vigore entro il prossimo marzo;
- in Libano a settembre del 2020 il Ministero del Lavoro l’aveva sostituito con un nuovo contratto di lavoro unificato per le lavoratrici domestiche immigrate, ma le agenzie di reclutamento personale hanno fatto ricorso e il Consiglio di Stato ha dato loro ragione appena un mese dopo, perché il nuovo contratto avrebbe arrecato “un danno enorme al settore”;
- il Qatar, che aveva promesso di abolire la kafala già nel 2015, tra gennaio e agosto 2020 ha introdotto modifiche al contratto di lavoro per gli immigrati, abolendo l’obbligo del permesso del kafeel per cambiare lavoro o uscire dal Paese e, soprattutto istituendo un salario minimo unico per arabi e stranieri. Le modifiche non riguarderanno il personale domestico per cui rimarrà il contratto previsto dalla kafala. Queste misure dovrebbero entrare in vigore a marzo di quest’anno, ma il condizionale è d’obbligo.
Ad aggravare la situazione per i migranti si è aggiunta la pandemia che ha colpito anche la penisola arabica: per contrastarla l’Arabia Saudita ha cominciato ad ammassare i migranti in campi di detenzione e a rimpatriare migliaia di lavoratori etiopi nel Paese d’origine, mentre in Qatar, Emirati, Oman e Kuwait i campi di lavoro, le affollate città-dormitorio dove vivono i lavoratori immigrati in condizioni igieniche pessime, sono stati isolati e messi in quarantena.
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interno di un campo di detenzione saudita - una camerata di immigrati asiatici in Qatar |
È quindi abbastanza difficile trovare ragioni sensate per “invidiare” il basso costo del lavoro in Arabia Saudita e in altri Paesi arabi, visto che si basa su istituzioni arcaiche da cui, troppo lentamente, quei Paesi si stanno allontanando.