Il deficit di risparmio


Il deficit di buoni posti di lavoro produce ingenti danni sociali: non solo la perdita del lavoro, ma la contrazione dei salari e l’aumento dei costi per istruzione, sanità, sicurezza sociale comportano la difficoltà – a volte l’impossibilità – di risparmiare.


In una società flessibile come quella statunitense – dove il posto fisso non è quasi mai un’aspirazione, l’accesso al credito è relativamente agevole, parte del reddito è impiegato per stipulare assicurazioni sanitarie o forme pensionistiche integrative – la propensione al risparmio è da sempre molto bassa, ma da qualche anno il tasso di reddito accantonato è cresciuto rapidamente, come conseguenza dell’insicurezza causata dalla crisi economica e dall’emergenza sanitaria.

  • La percentuale di reddito risparmiato è salita al 15,0% nell’agosto 2020, il più alto livello registrato negli ultimi quarant’anni, raggiungendo la cifra di 2.170 miliardi di dollari. Una cifra che si è ridotta al 12,9% a novembre dello stesso anno, sia per la forte riduzione del reddito medio (che ha comportato una drastica, contestuale contrazione dei consumi) sia per l’aumento dei prezzi che ha surclassato quello dei salari.

  • A ciò si aggiunga che la classe media statunitense si sta indebitando sempre di più per mantenere il suo status. L'indebitamento crescente è il frutto dei due fattori già registrati: i costi di sanità, università e auto sono in forte aumento (in molti casi triplicati in pochi anni), mentre i redditi sono stagnanti. Ecco dunque che l'indebitamento delle famiglie americane, mutui esclusi, è salito a 4.000 miliardi di dollari, un livello mai registrato prima.


La ridotta capacità di risparmio in termini reali, unita alla mancanza di risorse – durante l’attività lavorativa – che consenta di attivare fondi pensionistici integrativi, costringe un quinto degli anziani in età pensionabile a continuare a lavorare, soprattutto dopo la scomparsa dei piani pensionistici a benefici definiti (l’equivalente del nostro sistema retributivo), rimpiazzati dai piani 401(k) introdotti negli anni Ottanta (il penalizzante sistema contributivo).


E in Italia?

Dalla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, cioè dall’epoca del boom economico che fece dimenticare le ristrettezze del secondo dopoguerra, gli italiani si sono sempre dimostrati grandi risparmiatori. È paradossale che molti governi virtuosi del Nord Europa considerino l’Italia alla stregua di una cicala che spende oltre le sue possibilità, quando i suoi cittadini sono da sempre delle laboriose formichine.

  • A fine 2019 la ricchezza delle famiglie italiane era valutata – al netto dell’indebitamento – in 4.445 miliardi di euro, più di otto volte il loro reddito annuale; escludendo il patrimonio immobiliare, il risparmio in attività finanziarie, cioè in liquidità, ammontava a 2.030 miliardi, una cifra non molto distante dal valore del debito pubblico (2.409 miliardi nel 2019, oggi salito a 2.570), e superiore al prodotto interno lordo del 2019 (1.787 miliardi).

  • Già nel 2018, un decennio dopo la crisi finanziaria del 2008 che aveva colpito molti risparmiatori, il risparmio delle famiglie italiane era quasi del tutto ritornato ai livelli pre-crisi.

  • Nel 2020, la pandemia e le misure di contenimento della diffusione del Covid hanno determinato un brusco calo dei consumi, anche per chi non ha perso il lavoro o non si è visto ridurre il proprio reddito, determinando un sostanzioso aumento del risparmio privato. La riduzione dei consumi è dipesa da due fattori, uno imposto e l’altro volontario: da una parte il lockdown ha pressoché azzerate le spese fuori casa (bar, ristoranti, alberghi, viaggi, palestre, piscine, cinema, teatri, concerti, musei…); dall’altra, la paura del presente e l’incertezza del futuro hanno consigliato, anche a chi se le poteva permettere, di rimandare spese non necessarie (anche solo un vestito, un’automobile nuova, un elettrodomestico) a tempi migliori.

  • Così, la propensione al risparmio, cioè la percentuale risparmiata sul totale del reddito, è cresciuta in media in un anno dall’8,2% al 15,8%, mentre il numero delle famiglie che non riesce a risparmiare ha subito una lieve flessione, probabilmente grazie a misure governative come il reddito di cittadinanza e il blocco dei licenziamenti. Comunque, anche il risparmio registra un aumento delle disuguaglianze: si sono aggravate – seppur di poco – le condizioni di chi già stava male (è in crescita il numero delle famiglie che dichiara di essere stata colpita dalla crisi o che ha dovuto affrontare sacrifici per mettere da parte una porzione del proprio reddito), mentre chi stava meglio è riuscito a migliorare il proprio tenore di vita.

Si può dunque dire che il deficit di risparmio in Italia non esiste? Sì, ma solo in parte: se si analizza la composizione del risparmio privato qualche problema emerge. Due terzi del reddito non speso rimane sotto forma di liquidità, depositato sui conti bancari o postali, e quindi viene sottratto dal denaro circolante nel sistema economico. Anche il risparmio residuo viene investito prevalentemente per tutelare il futuro proprio o dei propri figli, privilegiando le assicurazioni previdenziali e gli investimenti immobiliari, mentre quelli azionari o in titoli del debito pubblico diventano sempre più marginali. In estrema sintesi, la ricchezza degli italiani non fluisce verso attività produttive e quindi non si traduce nella ricchezza del Paese.

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A prescindere dalle politiche economiche che possono essere attuale il punto è iniziare a rivolgere l’attenzione ai deficit reali delle economie, come questo, senza nascondersi dietro a deficit di bilancio che hanno smesso di essere reali da tempo.


 

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