Il deficit di buoni posti di lavoro
Negli Stati Uniti il primo problema è l’aumento della disoccupazione: 22 milioni di posti di lavoro persi fra marzo e aprile 2020, di cui un po’ più della metà recuperati nei mesi successivi.
Il secondo, la carenza di un’occupazione stabile e dignitosa:
- la crescita di posti di lavoro registrata negli ultimi mesi riguarda soprattutto impieghi precari e a basso salario, tanto che molti devono cercare due occupazioni per raggiungere un reddito che consenta loro di vivere;
- i posti di lavoro sono aumentati soprattutto nei settori della ristorazione e del commercio al dettaglio, dove i salari sono mediamente la metà del salario medio di un lavoratore americano e molto vicino – se non al di sotto – del salario di sussistenza;
- inoltre, secondo le statistiche ufficiali circa quattro milioni di americani lavora part-time nonostante sia disponibile a un impegno a tempo pieno, mentre altre ricerche considerano la cifra reale almeno doppia del dato dell’Ufficio di statistica del lavoro;
- questo riguarda anche gli appartenenti alla classe media che, una volta perso un posto di lavoro ben remunerato, devono adattarsi ad accettarne lavori non qualificati e salari molto più bassi;
- la conseguenza è che il 40% degli americani non riesce a risparmiare neppure 400 dollari per eventuali emergenze, mentre un americano su quattro afferma che non potrà permettersi di andare mai in pensione.
La MMT, in quanto teoria monetaria non può direttamente colmare questo deficit, ma può finanziare, a esempio, un programma Job Guarantee (Garanzia del lavoro). Ovviamente un programma di investimenti pubblici che crei anche milioni di nuovi posti di lavoro non è la panacea che porterà alla sconfitta della disoccupazione. Il programma prevede che lo Stato possa assumere lavoratori disoccupati come datore di lavoro di ultima istanza e assicurare a ciascuno un reddito dignitoso, ma ha un limite ben preciso: quello delle potenzialità inespresse dell’economia, cioè lo Stato può investire nel sistema economico solo fino a quando quest’ultimo non avrà raggiunto il pieno impiego dei fattori produttivi (capitale, risorse naturali e - appunto - lavoro). La Job Guarantee è quindi una proposta di politica economica che mira a fornire una soluzione permanente ed economicamente sostenibile, perché legata alla disponibilità di risorse e alla capacità espansiva dell’economia, al duplice problema dell'inflazione e della disoccupazione.
E in Italia?
In Italia, più che scarsità di buoni lavori c’è, nonostante le affermazioni di certa stampa più vicina a Confindustria, scarsità di lavori tout court.
Il lavoro che non c’è
Il nostro Paese detiene a riguardo numerosi record:
- ha il più alto tasso di disoccupazione in Europa (9,8% a ottobre, ma l’OCSE prevede che entro fine 2020 arrivi al 12,4%, anche se probabilmente questa cifra si raggiungerà ad aprile del 2021, quando scadrà il blocco dei licenziamenti);
- la disoccupazione giovanile ha superato fra luglio e ottobre il 30%, al terzo posto in Europa dopo Spagna e Grecia, per poi stabilizzarsi a fine anno al 29,5%;
- ancora più preoccupante la percentuale di chi non cerca più lavoro (20,7%), i cosiddetti NEET (giovani non occupati, non in istruzione né in formazione), la più alta in Europa, distanziando di cinque punti percentuali Bulgaria e Spagna.
Va ricordato che i lavoratori in cassa integrazione (compresi quelli in cassa integrazione straordinaria, molto spesso preludio al licenziamento) sono considerati occupati, mentre sfugge alla rilevazione tutta l’economia sommersa, cioè i lavoratori in nero, concentrati soprattutto in agricoltura, nei servizi domestici e alla persona.
Inoltre i provvedimenti del governo per finanziare la cassa integrazione e i 27 miliardi di prestiti comunitari SURE (Support to mitigate Unemployment Risks in an Emergency, il fondo comunitario per il sollievo alla disoccupazione) sono prevalentemente a sostegno di chi il lavoro ce l’ha o l’ha perso, non di chi lo sta cercando.
Anche provvedimenti ante crisi volti a creare opportunità di lavoro per i giovani, come il prepensionamento previsto da Quota 100, sono risultati inefficaci, sia per la scarsa adesione (ne hanno usufruito meno della metà degli aventi diritto) sia per la sovrastima dei risultati (si prevedevano tre nuovi posti di lavoro per ogni pensionamento).
Il lavoro che c’è
Quanto ai “buoni posti di lavoro”, va ricordato che:
- i lavoratori più tutelati, con contratti a tempo indeterminato, hanno, finora, superato senza danni la crisi in corso, attestandosi poco sopra i 15 milioni (i due terzi del totale degli occupati);
- mentre a subire maggiormente la crisi sono stati gli oltre tre milioni di lavoratori precari, con contratto a tempo determinato: oltre uno su dieci ha perso il lavoro nel corso dell’anno (319 mila disoccupati);
- anche i cinque milioni di lavoratori autonomi hanno pagato il loro tributo alla crisi, perdendo 154 mila posti di lavoro.
L’economia dei lavoretti e dei lavori stagionali
Fra gli autonomi ricade anche la cosiddetta gig economy, o economia dei lavoretti, cioè il lavoro a chiamata che conta dai 590 mila ai 750 mila addetti (secondo una stima dell’INPS). Qui il pensiero va immediatamente ai rider, i ciclo-fattorini che portano cibo a domicilio, ma in realtà questi sono poco più del dieci per cento del totale. Meno visibili sono tutti gli altri: baby sitter, collaboratori domestici, artigiani e addetti alle pulizie, ma anche specialisti e programmatori online che dipendono da un algoritmo che assegna il lavoro e spesso ne fissa la durata ottimale in base alla quale stabilisce il compenso. Ovviamente, questa modalità di lavoro ha ricadute diverse su chi svolge l’attività saltuariamente o comunque a tempo parziale (i tre quarti del totale, studenti o pensionati che integrano il proprio reddito o artigiani che usano i lavoretti come secondo impiego) e assai maggiori sui circa 150 mila addetti che lavorano a tempo pieno, ricavando mediamente 800 euro mensili come unica fonte di reddito.
Un’altra categoria che, in tempi normali, non gode di tutti i diritti che andrebbero riconosciuti ai lavoratori è quella degli stagionali, soprattutto quelli impegnati nella ricezione turistica e alberghiera. Si tratta di addetti alla cucina, alla pulizia delle camere, al servizio in sala da pranzo o in reception, a quello in chioschi dedicati allo street-food, ai servizi negli stabilimenti balneari o negli impianti sciistici che vengono assunti con un regolare contratto, ma poi – in cambio di un’integrazione della retribuzione in nero, a volte sostituita dalla gratuità di vitto e alloggio – devono rinunciare al riposo settimanale e superano normalmente il numero massimo di ore lavorative giornaliere.
L’home working è così smart?
La pandemia ha reso più frequente, ove possibile, il ricorso al telelavoro. Seppure questa tipologia di lavoro, pensata e organizzata, può essere più funzionale e sostenibile per il lavoratore come per l'azienda, proprio nella sua implementazione forzata durante il 2020 ha partecipato in maniera rilevante al deficit lavorativo.
Il rapporto lavorativo nel home working è stato spesso quello fra un’azienda spersonalizzata e un individuo isolato che si trova a dover affrontare da solo lo stress, i dubbi lavorativi, i calcoli e le valutazioni in tempi normali affidate al gruppo. I rapporti con i colleghi si riducono alle riunioni a distanza, limitando i rapporti interpersonali e le relazioni sindacali. Spesso si lavora di più rispetto al proprio orario consueto e a volte anche in orari non abituali, come quello serale, sacrificando la pausa pranzo o continuando l’attività durante i giorni festivi. Infine i costi per ricavare l’ambiente lavorativo nella propria abitazione sono quasi sempre a carico del lavoratore (scrivania, seduta ergonomica, personal computer, connessione veloce a Internet) e si sommano allo stress che comporta la possibilità o meno di avere uno spazio esclusivo per l'attività lavorativa nella propria abitazione.
Inoltre, non è difficile percepire il rischio che, per diverse tipologie di lavoro, l’home working possa progressivamente portare alcuni lavori “normali” ad assumere diverse caratteristiche dei lavori della gig economy, in termini di spersonalizzazione e controllo basato su algoritmi.
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A prescindere dalle politiche economiche che possono essere attuate il punto è iniziare a rivolgere l’attenzione ai deficit reali delle economie, come questo, senza nascondersi dietro a deficit di bilancio che hanno smesso di essere reali da tempo.
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