Il MES: aperitivo o amaro?

 


La crisi pandemica sembrava aver provocato un salutare anche se tardivo ripensamento nell’UE, con la messa in campo di strumenti che fino ad allora erano stati rifiutati.

Ma la riforma del MES, per le sue caratteristiche, fa pensare che si voglia relegare questo cambiamento all’eccezionalità della situazione, per riprendere,
una volta dichiarata finita l’emergenza, quegli stessi schemi che si sono dimostrati clamorosamente fallimentari.


Credo che Armando Testa ci avrebbe perdonato per aver preso in prestito il geniale logo che il grafico milanese creò sessant’anni fa per la pubblicità di un (allora) famoso vermouth: “un punto di amaro e mezzo di dolce” recitava lo slogan, uno slogan che sembra oggi adattarsi perfettamente all’attuale dibattito sul MES, Meccanismo Europeo di Stabilità.

L’unico risultato nel dibattito politico che sia stato prodotto dalla vittoria del sì al referendum costituzionale del 20-21 settembre scorso – a parte l’aver rimesso in discussione le caratteristiche della legge elettorale su cui sembrava che ci fosse accordo, almeno fra le componenti della maggioranza – è stata la riproposizione dell’utilità del ricorso al MES.

Lo ha richiesto nuovamente, anche a nome dei suoi colleghi, il presidente della regione Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini ed è comprensibile, visto che saranno le regioni a gestire il prestito sanitario, mentre il rimborso del debito rimarrà in capo allo Stato. Si sono associati trecento sindaci delle principali città guidate da esponenti del centrosinistra (Sala, Gori, Nardella, Falcomatà, Del Bono, Orlando…) con un appello al governo promosso dal sindaco dem di Ascoli Piceno, Matteo Ricci: “Il MES è uno strumento fondamentale ed unico per rafforzare la sanità territoriale e quella del Mezzogiorno”. Secondo Ricci, “i sindaci vogliono il Mes perché conoscono molto meglio di altri le esigenze dei territori e delle comunità. I presidi sanitari locali sono essenziali per l’integrazione socio-sanitaria, per garantire il diritto alla salute dei cittadini”.

Al coro si sono anche uniti: leader di partiti nazionali come ZingarettiRenzi e Berlusconi; pur con qualche cautela, il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, il ministro Roberto Speranza, la sottosegretaria alla Salute Sandra Zampa e anche il commissario europeo per l’economia Paolo Gentiloni.



Il MES: pro e contro

Le ragioni a favore dell’attivazione del prestito sono: che il MES – essendo a tassi agevolati rispetto al mercato – farebbe risparmiare, secondo le diverse stime, dai 250 ai 350 milioni di interessi all’anno; che è senza condizioni, tranne l’obbligo di utilizzare le risorse per spese sanitarie; che è disponibile in tempi brevi e consentirebbe di rispondere tempestivamente alla situazione nuovamente emergenziale, testimoniata dalle lunghe file ai drive-in per il tampone, al progressivo riempimento dei posti letto nei reparti Covid e in quelli di terapia intensiva.

Chi è contrario ricorda che l’ammontare del risparmio sarebbe irrisorio, se rapportato all’ammontare degli interessi pagati annualmente sul debito pubblico (76 miliardi, cioè più di 200 milioni al giorno); che tale risparmio potrebbe anche essere azzerato dal cosiddetto “stigma”, cioè il fatto che il mercato interpreterebbe il ricorso al MES come un’ammissione di debolezza e di fragilità dell’economia italiana, con conseguenti rialzi degli interessi richiesti per l’acquisto dei titoli di Stato collocati annualmente (titoli obbligazionari immessi sul mercato per circa 400 miliardi l’anno); che i massicci acquisti di titoli di Stato da parte della BCE hanno fatto scendere sensibilmente i tassi di interesse, rendendo più agevole la collocazione dei singoli titoli di Stato sul mercato; che la presunta incondizionalità del MES sanitario riguarda solo l’accesso al prestito, vincolato solo a un suo utilizzo per spese sanitarie, ma non ha rimosso le condizionalità ex post, con la possibilità di una sorveglianza rafforzata da parte della Commissione Europea che potrebbe richiedere l’adozione di misure economiche per superare le fasi di difficoltà; infine che le file per i tamponi e le carenze di posti in terapia intensiva non sono dovuti a scarsità di risorse finanziarie, ma alla disorganizzazione delle regioni e al tempo necessario ad adeguare l’offerta di servizi.

Innanzitutto occorre chiarire che la discussione italiana riguarda il MES Sanitario (Meccanismo Europeo di Stabilità per la Sanità), o Pandemic Crisis Support, cioè una particolare declinazione del fondo di stabilità. Si tratta di un finanziamento per rafforzare i servizi sanitari impegnati nell’emergenza Covid-19; la finestra per chiedere questo prestito è aperta da giugno di quest’anno fino al 31 dicembre 2022, scadenza che potrà essere modificata in base all’evoluzione della crisi. Finora nessun Paese ha chiesto di aderire a questo prestito, mentre 17 Stati membri hanno richiesto il prestito Sure (Support to mitigate Unemployment Risks in an Emergency), lo strumento – garantito dall’Unione Europea – di sostegno temporaneo per attenuare i rischi di disoccupazione nell’emergenza sanitaria.

Paradossalmente, l’argomento più utilizzato dai fautori del ricorso al MES sanitario, cioè la mancanza di condizioni nell’erogazione dei prestiti, è smentita dagli stessi documenti ufficiali del Meccanismo Europeo di Stabilità (che, per inciso, non è un organismo europeo, ma intergovernativo, quindi indipendente dall’Unione): l’8 maggio scorso il consiglio d’amministrazione del MES precisava le clausole che avrebbero regolato i prestiti erogati nell’ambito del Pandemic Crisis Support in un documento, il Term Sheet, che già nella prima clausola chiariva come il nuovo strumento fosse “basato sull’ECCL”. E cosa si nasconde dietro questo acronimo? Il MES suddivide in due categorie gli Stati richiedenti: quelli con un’economia solida che rispetta tutti i parametri del Patto di Stabilità e Crescita (Fiscal Compact), compreso un rapporto debito/PIL inferiore al 60%, accedono alla linea di credito PCCL (Precautionary Conditioned Credit Line), dovendo solo impegnarsi a continuare a rispettare i criteri del Patto di Stabilità; per i Paesi invece che non rispettano i parametri di Maastricht e soprattutto quello della soglia del 60% - come l’Italia che ha un rapporto debito/PIL più che doppio – è prevista la linea di credito ECCL (Enhanced Conditions Credit Line), per accedere alla quale il Paese richiedente è obbligato ad adottare misure correttive per rientrare nei parametri non rispettati ed evitare eventuali difficoltà future per quanto riguarda l’accesso al finanziamento del mercato. In pratica, parafrasando Mark Twain, il Pandemic Crisis Support fornisce volentieri ombrelli a Paesi dove non piove mai, ma pone pesanti condizioni alla fornitura di ombrelli a Paesi dove piove spesso.


Il MES cambia faccia

Da allora sono passati due mesi e sono intervenuti fatti nuovi che hanno radicalmente cambiato lo scenario e dei quali, a dir il vero, si era avuto sentore anche un paio di settimane prima delle elezioni amministrative italiane.

L’11 settembre si era infatti tenuta a Berlino una riunione del cosiddetto Eurogruppo, organismo informale che raggruppa i ministri delle Finanze dei Paesi della zona Euro e che stabilisce le politiche per il MES. Il ministro delle Finanze francese, Bruno Le Maire, in una sua conferenza stampa aveva rivelato elementi importanti delle decisioni prese nell’incontro: nell’ambito del programma per la realizzazione dell’unione bancaria, si era deciso di predisporre una riforma del MES entro novembre, in modo da consentire l’attivazione della rete di protezione bancaria (common back-stop) entro la fine del 2021.

Ma cosa c’entra il MES, la cui denominazione comune di “fondo salva Stati” ne delinea chiaramente il campo di azione, con il sistema bancario?

Fin dal 2014, i dissesti di molte banche europee a seguito della crisi del 2008-09 suggerirono di creare una rete di protezione europea (common back-stop) per gli istituti bancari in difficoltà che sostituisse i fondi interbancari che ciascun Paese aveva attivato a questo scopo. Questo strumento fu adottato due anni più tardi, con la creazione del Meccanismo di Risoluzione Unico (SRM, Single Resolution Mechanism) e di un fondo – il Fondo di Risoluzione Unico – che nell’arco di otto anni avrebbe dovuto assorbire le risorse dei diversi fondi interbancari nazionali. Ci si rese però conto che anche a regime, cioè nel 2024, i 55 miliardi di euro del Fondo avrebbero potuto non essere sufficienti a fronteggiare dissesti che colpissero contemporaneamente più banche e coinvolgessero più Paesi; si pensò perciò di riformare il MES, allargandone l’obiettivo a fondo “salva banche”. In sostanza il MES avrebbe garantito linee di credito allo SRM senza che quest’ultimo dovesse ricorrere alla più laboriosa ricapitalizzazione del fondo di dotazione. La riforma del MES era però prevista per il 2022, in modo che l’Unione bancaria e la sua rete di protezione fossero esecutive alla fine del 2024. Perché dunque questa accelerazione, per di più in un periodo di crisi come quella prodotta dalla pandemia? La notizia non ha avuto alcun risalto sui media e non ha stimolato alcun dibattito politico, ma ha preoccupato 35 economisti che hanno inviato una lettera aperta al ministro dell’Economia e delle Finanze, Roberto Gualtieri, presente alla riunione, chiedendo se esistessero “atti giuridicamente vincolanti idonei a modificare l’assetto normativo dei prestiti MES, e nel caso di indicarceli”. Il ministro non ha mai risposto.

MES: si può fare senza?

La risposta forse si può trovare allargando la prospettiva. A metà ottobre sia Spagna che Portogallo hanno annunciato che avrebbero al più presto fatto ricorso ai contributi a fondo perduto previsti dal Next Generation EU, cioè la nuova denominazione del Recovery Fund, ma – considerato che la finestra per richiedere l’accesso sia ai prestiti che alle sovvenzioni è aperta fino a luglio 2023 – non avrebbero “per il momento” attivato alcun prestito: “ricorreremo ai prestiti, se ne avremo bisogno, per il bilancio 2024-2026” e “ai prestiti si ricorrerà in un secondo momento e solo se strettamente necessario”. Francia e Italia sembrava stessero per prendere la medesima decisione. Evidentemente si riteneva che i contributi del programma Next Generation EU, sommati agli ingenti acquisti di titoli da parte delle BCE nell’ambito dei 1.350 miliardi previsti dal Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP), fossero sufficienti a fronteggiare la crisi sanitaria ed economica, senza il ricorso ai prestiti dell’Unione Europea.

Caffè amaro: Christine Lagarde e Jens Weidmann

I Paesi membri “puritani” del Nord Europa non hanno visto di buon occhio questa sorta di secessione sudista e hanno studiato una contromossa, cercando di chiudere il rubinetto dei prestiti della Banca Centrale, richiamandola al rispetto della clausola della Capital Key, cioè che l’ammontare dei prestiti per ciascun Paese sia proporzionale alla quota del capitale BCE detenuta dalla propria banca centrale, clausola cui però il PEPP non è vincolatoJens Weidmann, governatore della Bundesbank, la banca centrale tedesca, ha avvertito Christine Lagarde che la politica monetaria non può soppiantare quella fiscale, mentre il suo omologo lussemburghese Yves Mersch ha lamentato che la BCE non può agire in modo da ridurre l’efficacia degli strumenti adottati da Bruxelles per reagire alla crisi, cioè il Next Generation EU, il Sure e il MES.

Il 10 dicembre, lo stesso giorno della riunione del Consiglio Europeo chiamato ad approvare la riforma del MES, si è tenuta l’ultima riunione dell’anno del Comitato esecutivo della BCE per decidere le nuove misure per contrastare la crisi economica scatenata dal Covid. Il riferimento al Capital Key suggerisce che i “falchi” nordeuropei abbiano spinto per l’abbandono del PEPP o almeno per un suo sostanziale ridimensionamento, trovando però la ferma opposizione della governatrice Christine Lagarde che è invece riuscita a rifinanziare con altri 500 miliardi il programma e a prorogarne la scadenza a marzo 2022. Si tratta di una buona notizia, perché senza più il calmiere della BCE i mercati finanziari sarebbero stati liberi di rialzare i tassi di interesse sotto i quali non sarebbero disposti ad acquistare titoli di Stato dei Paesi in difficoltà e questi sarebbero stati costretti a chiedere i prestiti a tassi agevolati garantiti dal MES o dal Next Generation EU. L’unica arma a disposizione della BCE per continuare a sostenere i debiti pubblici italiani, spagnoli, portoghesi e di un’altra manciata di Stati membri in difficoltà sarebbe stata ricorrere al bazooka minacciato (ma mai attivato) nel famoso discorso del “whatever it takes” nel 2012: le operazioni monetarie dirette (OMT, Outright Monetary Transactions), cioè la possibilità per la Banca Centrale di acquistare titoli sovrani direttamente dagli Stati emittenti. Ma anche questa sarebbe stata un’arma spuntata, perché per accedere alle OMT ogni Stato deve aver preliminarmente richiesto l’intervento del MES. 


Restaurazione senza Rivoluzione

Agguato sventato, dunque? Per adesso sì, ma si può star certi che i Paesi nordici che si ritengono “giudiziose formichine” non demorderanno dal tentativo di assoggettare alle regole dell’austerità quelle “dissennate cicale” dei Paesi mediterranei, cominciando già dalle opportunità che la riforma del MES offrirà loro.

Come si vede, la posta in gioco nella riforma che si discute in questi giorni è assai più alta dei 36 miliardi di euro che spetterebbero all’Italia se aderisse al MES Sanitario.

Riprendendo le parole dell’ultimo, disperato appello che un centinaio di economisti e giuristi hanno rivolto al governo italiano: “la crisi pandemica sembrava aver provocato un salutare anche se tardivo ripensamento nell’UE, con la messa in campo di strumenti che fino ad allora erano stati rifiutati. Ma la riforma del MES, per le sue caratteristiche, fa pensare che si voglia relegare questo cambiamento all’eccezionalità della situazione, per riprendere, una volta dichiarata finita l’emergenza, quegli stessi schemi che si sono dimostrati clamorosamente fallimentari.”

Quel “ripensamento” sarebbe stato la rivoluzione di cui l’Unione avrebbe avuto bisogno. Gli ultimi avvenimenti invece segnano: 

  • la Restaurazione (senza neppure bisogno della rivoluzione) dell’Europa neoliberista; 

  • un’Europa sempre più diretta dai governi degli Stati membri a scapito della Commissione europea; 

  • la vittoria dei nostalgici del Patto di Stabilità e Crescita (che non è mai stato sospeso, poiché la Commissione europea è stata semplicemente autorizzata “a discostarsi temporaneamente dai requisiti di bilancio normalmente applicabili”), sebbene recentemente la  Corte dei conti europea abbia segnalato che il rilevante aumento del deficit degli Stati membri renderà difficile un ritorno tout court ai parametri previsti dal Patto. 

Il peso spropositato attribuito al MES, che – come già ricordato – non è un organo comunitario, ma uno strumento intergovernativo, è il suggello di questa battaglia persa.

Poche voci in Italia si sono assunte l’ingrato compito di Cassandra, ma Stefano FassinaEmiliano Brancaccio e i cento firmatari dell’appello in extremis per scongiurare l’avallo italiano alla riforma del MES non hanno avuto miglior fortuna della mitologica figlia di Priamo.

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