Sul Referendum

 


Perché è così difficile condividere un “no” convinto o un “sì” altrettanto convinto alla riduzione del numero dei parlamentari.


Se si confrontano le ragioni del sì e del no al referendum entrambe appaiono prevalentemente ideologiche o generiche e facilmente confutabili con un argomento opposto. La sola riduzione del numero dei parlamentari - di per sé non una grande svolta nella crisi del rapporto fra eletti ed elettori, o una rivoluzione delle funzionalità del parlamento - potrebbe diventare la spinta a cambiare (in maniera positiva o negativa) norme che determinano il funzionamento legislativo e la democraticità delle elezioni nazionali?

Molti promotori del NO suggeriscono che la mancata conferma alla modifica costituzionale sarebbe uno sprone a cambiare la funzionalità legislativa, ridando dignità al Parlamento, che deve tornare ad essere la sede del potere legislativo, non un luogo di mera ratifica di decreti governativi imposti a suon di voti di fiducia; dove gli eletti possano e debbano rendere conto agli elettori del proprio operato; che sia in grado di prendere provvedimenti per avvicinare nuovamente i cittadini alle Istituzioni. Ma attraverso quali strumenti il parlamento riuscirebbe a interpretare che il no alla modifica costituzionale sia un no per il cambiamento e non una cristallizzazione dello status quo? E quali sarebbero i tempi per avviare questo cambiamento?

Su questi quesiti e con il presupposto di una fattiva volontà politica a superare l'impasse istituzionale attuale si basano alcune valutazioni qui esposte e a cui si spera si possano aggiungere altri spunti su cui ragionare.

In merito all'economicità: non è necessario né sufficiente modificare gli articoli della costituzione che riguardano il numero dei parlamentari per ridurre i costi delle istituzioni. Gli stipendi e i benefit dei parlamentari si possono modificare con una legge ordinaria avendone un uguale risparmio. Storicamente si decise di garantire stipendi alti ai parlamentari per assicurarsi la loro "non comprabilità". La premessa è sbagliata: i ricchi non hanno comportamenti più morali dei poveri. Inoltre, nonostante la costituzione ritenesse quello dei parlamentari il lavoro più nobile in un paese democratico, ha permesso ai parlamentari di poter mantenere l'esercizio delle professioni private, aprendo la strada ad enormi conflitti di interesse. Magari, fissando un tetto al rapporto dello stipendio dei parlamentari con quello medio nel paese, la posizione del parlamentare sarebbe meno appetibile dal punto di vista economico per chi non ha etica di stato. Il referendum non incide in alcun modo su questo aspetto, che anzi potrebbe essere escluso da future discussioni politiche proprio a causa del taglio dei parlamentari.

Per quanto riguarda l'attuazione della Costituzione, il numero dei parlamentari non crea di per sé maggiore o minore democrazia, perché questa la fa il tipo di rappresentanza parlamentare, l'intermediazione dei partiti (sancita nella nostra costituzione all'art. 49) e l'interrelazione fra rappresentanti e rappresentati. Attualmente una buona parte degli eletti vota in parlamento in base a quanto decidono i capigruppo (e ognuno secondo sua coscienza si informa o meno su cosa vota). Questo è un punto centrale: senza un legame con gli elettori l'eletto è in balia dei partiti e dei suoi interessi personali e, di conseguenza, l'assenza di vincolo di mandato si trasforma in arbitrio (da qui anche i tanti cambi di "casacca"). Per contro, se c'è un legame eccessivo con “il territorio“ si va verso il particolarismo apolitico che è un limite dei sistemi a rappresentanza territoriale, dove la definizione dei collegi diventa fondamentale, così come diventa fondamentale l'istituto del recall - cioè la revoca del mandato da parte degli elettori prima della sua scadenza, se questi reputano che il loro rappresentante non tuteli i loro diritti o interessi.

Una diminuzione del numero dei parlamentari renderebbe ogni rappresentante espressione di un bacino più vasto di elettori, questo significa certamente che ogni singolo elettore sarà meno rappresentato, significa anche che il rappresentante avrà bisogno di avere maggiori voti, in un'area territoriale più grande: questo (con la finalità di mantenere un numero ampio di voti) potrebbe rendere l'eletto più vincolato agli umori del territorio e meno vincolato alle scelte di partito? Non toccando l'art. 67 della costituzione, e quindi il vincolo di mandato che rimane nazionale, poco inficia questa modifica costituzionale le aree meno popolate, non c'è su questo, infatti, alcuna differenza con la situazione attuale, perchè rimane la stessa proporzione e la legge costituzionale prevede espressamente il riequilibrio del peso elettorale di tutte le regioni.

Bisogna considerare che i regolamenti di funzionamento delle Camere, come dice l’ex presidente della Consulta Onida, potrebbero migliorare se si coglie questa occasione per mettere mano a tanti aspetti dei regolamenti e delle prassi parlamentari. Tra questi ci sono certamente l'efficientamento delle commissioni (sono 14 quelle ordinarie per ogni camera) cercando di evitare un allargamento di una delle loro funzioni: consultiva, referente, redigente, deliberante e avendo cura di mantenere la proporzione delle forze che le compongono: è essenziale promuovere la capacità per le minoranze di far sentire la propria voce; così come evitare un ulteriore stimolo al malcostume governativo di assumere in proprio la funzione legislativa con l’eccessivo ricorso ai decreti legge. Una diminuzione del numero dei parlamentari quanto potrebbe rendere difficile il funzionamento delle camere, quanto pericoloso questo potrebbe essere per il rispetto della rappresentanza popolare e quanto potrebbe valerne la pena per il loro efficientamento?

Il Senato sarà certamente interessato da modifiche importanti. Una di queste - la proposta di legge costituzionale 2238 (Fornaro) "Modifiche agli articoli 57 e 83 della Costituzione, in materia di base territoriale per l'elezione del Senato della Repubblica e di riduzione del numero dei delegati regionali per l'elezione del Presidente della Repubblica" va a confermare la prassi del bicameralismo paritario. Lo spirito dei cosiddetti padri costituenti era in realtà di affidare alla Camera alta la rappresentanza degli interessi territoriali in modo da conciliarla con quelli nazionali espressi dall’altra Camera, ma, come i frequenti casi passati confermano, una seconda approvazione da una Camera "diversa" consente di correggere eventuali errori nei provvedimenti, spesso approvati in aula su indicazione/imposizione dei partiti di appartenenza senza controllo dei singoli parlamentari.

Volendo seguire lo spirito dei padri costituenti, l'attuale parlamento potrebbe ipotizzare una camera alta simile a quella degli USA - con un Senato con rappresentanza uguale per i diversi Stati, indipendentemente dalla popolazione - che consentirebbe di mantenere in Italia l'attuale parlamentarismo paritario, differenziando però la composizione delle due Camere (e dei relativi interessi). Un Senato con un uguale numero di senatori per ogni regione (con l'unica eccezione della Valle d'Aosta), renderebbe inutile la conferenza Stato-Regioni e darebbe voce ai territori oggi meno rappresentati.

Estremamente rilevante anche se indiretta del taglio dei parlamentari è la valutazione su come i partiti sceglieranno di perseguire l'interesse collettivo della popolazione. Il punto è che mentre la costituzione del '48 pone i partiti come fulcro della rappresentanza del popolo italiano (art.49), i cambiamenti globali occorsi negli ultimi 40 anni hanno prodotto una feroce crisi dei partiti di massa senza riuscire a crearne ancora un'alternativa valida. Oggi i partiti sono ridotti o a partiti personali intorno a una figura mediaticamente carismatica o a cartelli elettorali senza alcun progetto e visione politica, centri di potere dalla scarsa democrazia interna, dediti essenzialmente alla perpetuazione di sé stessi, legati a doppio filo con le élite economico-finanziarie che determinano, a livello nazionale e internazionale, la politica dei governi restringendo sempre più lo spazio di manovra, facendo dell’esecutivo niente più che il gestore di uno status quo che si vuole immutabile. Il risultato è stato l'impoverimento della classe politica a favore di "yes men" - preservati con liste bloccate e candidature multiple - che sta alla base del sentimento anticasta che ha prodotto questa modifica costituzionale ed è anche alla base della sfiducia verso questa classe politica che si ritiene incapace di apportare modifiche positive al funzionamento legislativo. Ora, il taglio dei parlamentari potrebbe influenzare un cambiamento di rotta nei partiti?

Con il taglio dei parlamentari i partiti potrebbero continuare a scegliere le liste nelle varie zone secondo un criterio di "fedeltà di voto", potrebbero continuare con la pratica delle candidature multiple, riducendosi, col numero di eletti, la possibilità per gli outsider di arrivare a conquistare un seggio. Ma, poiché la diversa costruzione dei collegi elettorali porterebbe certamente i partiti ad aggiornare la propria strategia di scelta dei candidati, è possibile che questa modifica costituzionale possa condurre i partiti ad avere maggiore beneficio a scegliere dei rappresentanti che siano davvero espressione del territorio, che lo conoscono, lo ascoltano e che possano consolidare la rilevanza del partito in quell'area?

La considerazione di una necessaria riorganizzazione interna ai partiti riguarda anche il fatto che un numero ridotto di parlamentari accrescerebbe il peso politico di ciascuno in parlamento, perché più facilmente il voto di pochi, alla Camera e al Senato, potrebbe diventare decisivo. Questa indipendenza difficilmente verrebbe smorzata dalla fedeltà al "capitano" o all’ "uomo al potere" di turno, per cui a poco servirebbe avere solo peones tra le file del gruppo parlamentare, ma potrebbe riuscirci invece una maggiore coerenza ideologica?

C'è poi la preoccupazione che i candidati con un importante sostegno economico possano sostenere più facilmente una campagna elettorale che copra un bacino elettorale più ampio, così come la preoccupazione per il numero delle donne in Parlamento che già oggi godono di minore accesso ai media e alle tribune elettorali, oltre che ai finanziamenti.

Sarebbe economicamente più difficile l’ingresso in Parlamento anche di formazioni politiche estranee al Palazzo essendo la possibilità di entrarvi e rompere equilibri consolidati già ostacolata in vari modi (soglie di ingresso, raccolte firme costose, ecc). La riduzione andrebbe poi a influenzare la possibilità per le formazioni minori di essere rappresentate in Parlamento: come osservato dall’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, “la riduzione dei seggi disponibili determinerebbe soglie di sbarramento implicite più alte di quelle esplicite, tali da impedire di fatto anche nei collegi plurinominali (in minor numero e più ampi) l’accesso in Parlamento alle forze politiche minoritarie, così limitando il pluralismo della rappresentanza democratica”. Queste difficoltà però porterebbero necessariamente ad un maggiore dialogo tra forze divise da poche differenze e nel dialogo, invece di una parcellizzazione delle poltrone (resa più difficile dal numero ridotto di queste), se ne avessero la volontà, potrebbero arrivare alla costituzione di una forza politica che riesca a creare davvero un'alternativa oltre che a propagandarla durante le elezioni.

La crisi di rappresentanza è crisi di comunicazione, sia per quanto riguarda l'ascolto delle singole istanze e quindi dei singoli cittadini, sia per quanto riguarda l'informazione sulle scelte e le proposte dei rappresentanti in sede parlamentare. Seppure la riduzione del numero dei parlamentari potrebbe da un lato facilitare un migliore legame informativo sull'impegno e sul lavoro dei parlamentari e dall'altro allontanare l'eletto dalla sua più ampia base elettorale, assieme a questa sarebbe comunque necessario stimolare nuovi istituti per ricostituire quel rapporto di fiducia, informazione e rappresentatività fra cittadini, iscritti (a partiti e movimenti) e rappresentanti, che i partiti hanno perso e le democrazie dirette non si sono dimostrate in grado di colmare. Si dovrebbe permettere il riconoscimento normativo di un attivismo sociale e politico bottom up, come ad esempio le citizens' assembly anglosassoni o come il referendum propositivo, già approvato alla Camera ma giacente in Senato da un anno e mezzo.

La diminuzione del numero di parlamentari dovrebbe indurre poi ad una nuova legge elettorale, probabilmente proporzionale e auspicabilmente con una minore soglia di sbarramento. Al momento però non sappiamo se la nuova legge adotterà un sistema proporzionale puro; un proporzionale con premio di maggioranza; un maggioritario; un sistema misto comprendente entrambi gli approcci. E la scelta ovviamente inciderà sulla rappresentatività dei parlamentari eletti e sul ruolo (oggi preponderante) dei partiti nella selezione dei candidati. Senza dimenticare che anche i dettagli della nuova legge (conferma o abolizione delle candidature multiple; eventuale legame del candidato al collegio – almeno per il Senato – sulla base della nascita o della residenza nella regione o nella circoscrizione elettorale in cui ci si presenta) incideranno sulla vicinanza fra candidato e territorio. La legge elettorale dovrà tenere conto anche del fatto che la riduzione del numero dei parlamentari comporta una minore stabilità delle maggioranze poiché basterebbero meno deputati o senatori che cambino casacca nel corso della legislatura e dà una maggiore forza a piccole formazioni dando la possibilità di delegittimare i partiti che hanno avuto più voti. Come se non bastasse, bisogna ricordare che in base alla legge elettorale scelta, se si avesse una legge marcatamente maggioritaria, si potrebbe anche spianare la strada a meccanismi dittatoriali.

Come ultima considerazione, poi, c'è la constatazione che i timori per l'iter legislativo nazionale, la salvaguardia della sovranità popolare, la garanzia di diverse culture politiche che danno impulso a partiti minoritari si infrangono sulla realtà di un orizzonte della gestione della cosa pubblica che si è fatto più ampio. Ormai le decisioni che influenzano maggiormente gli italiani sono prese fuori dall'Italia (e spesso anche da organi informali non previsti dai Trattati come l'Eurogruppo) e la maggiore o minore rappresentatività o funzionalità del parlamento non ha alcuna influenza su queste decisioni.

Al di là delle prese di posizione dogmatiche, probabilmente le ragioni di chi voterà sì e chi voterà no sono nella prospettiva del futuro. Chi preferirà mantenere una salvaguardia costituzionale al sempre minore potere politico nazionale e chi vede in questo tipo di modifiche un modo per innescare il cambiamento di qualcos'altro.

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