Israele: due realtà inconciliabili

 


Perché, prima della difficile composizione degli interessi dei popoli israeliano e palestinese, è la definizione che Israele dà di sé stessa, come Stato ebraico e democratico, a essere inconciliabile.


Il 19 luglio 2018 il parlamento israeliano, la Knesset (Assemblea in ebraico), approva con soli due voti più della maggioranza richiesta la Legge fondamentale sullo Stato nazionale del popolo ebraico.

In Israele le leggi fondamentali assumono un rango costituzionale, essendo il Paese una delle poche democrazie parlamentari, assieme a Gran Bretagna e Nuova Zelanda, a non avere una Costituzione vera e propria. La costituzione informale di Israele è costituita dalla dichiarazione d’indipendenza, nonostante la sua natura sia in gran parte soltanto dichiarativa e non normativa, e dalle leggi fondamentali.

La legge fondamentale sullo Stato nazionale del popolo ebraico

Il contenuto della legge fondamentale sullo Stato nazionale del popolo ebraico afferma, ripetendo il principio della legge d’indipendenza, che la Terra di Israele (Eretz Yisrael) è la patria storica del popolo ebraico e che Israele è lo Stato del popolo ebraico, comprendendo in questa definizione anche il popolo della diaspora (curioso caso di un Paese che si impegna a “garantire la sicurezza dei membri del Popolo ebraico, che si trovano in difficoltà e in cattività, a causa della loro ebraicità o della loro cittadinanza” anche se cittadini di altri Paesi).

Continua poi sottolineando che Israele “è aperto all'immigrazione ebraica e alla riunione degli esuli”, ma non ha bisogno di specificare che dallo status di esiliato sono esclusi i palestinesi residenti in Cisgiordania oppure ospitati nei campi profughi di Giordania, Libano, Siria, Egitto, Arabia Saudita, Iraq e Yemen, esclusione già sancita dalla Legge del Ritorno del 1950 e da quella della cittadinanza del 1952, poi emendata nel 1980.

Conferma che “Gerusalemme, completa e unita, è la capitale di Israele” e che Israele “considera lo sviluppo dell'insediamento ebraico come un valore nazionale e agisce per incoraggiarne e promuoverne l'istituzione e il rafforzamento”.

La lingua ebraica diventa “la lingua di Stato”, mentre quella araba viene ridotta a lingua a statuto speciale, la cui definizione è però demandata a una legge ordinaria.

Seppure implicitamente, con la rivendicazione del “suo diritto naturale, culturale, religioso e storico all'autodeterminazione”, Israele assegna alla religione ebraica l’attributo di religione di Stato: ne assume come ufficialmente propri i simboli, il calendario e le festività religiose, mentre demanda l’esercizio del culto per i non ebrei nuovamente alla legislazione ordinaria.

Soprattutto c’è una voluta assenza: la legge omette di garantire “la completa uguaglianza dei diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti indipendentemente dalla religione, dalla razza o dal sesso” e neppure “la libertà di religione, di coscienza, lingua, educazione e cultura”, garanzie invece assicurate nella dichiarazione di indipendenza. L’esplicitazione di tali garanzie avrebbe sminuito il connotato marcatamente ebraico, con richiami neppure velati al sionismo ortodosso, dato a questa Legge fondamentale.

La Legge Stato-Nazione ha dato avvio a un acceso dibattito, interno e internazionale, fra chi ne apprezzava il richiamo ai valori ispiratori di Eretz Yisrael e chi ne criticava la mancanza di democraticità.

Secondo il giurista Giorgio Sacerdoti, esponente della comunità ebraica italiana e presidente del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, la legge “si colloca nel solco della realizzazione del sogno sionista con la costituzione dello Stato nel 1948 e nella direzione tracciata dalla Dichiarazione d’Indipendenza.(…) Molte di queste disposizioni si trovano già in leggi precedenti, ma non erano inquadrate come espressione organica della natura di Israele come Stato nazionale del popolo ebraico a livello costituzionale. (…) La Legge è infine importante perché sancisce a livello legislativo il rapporto tra Stato d’Israele e Diaspora, su un piano nazionale, sociale, culturale”.

Sacerdoti ha trovato anche aspetti positivi nel non detto: la legge non definiva che confini debba avere il territorio dello Stato, lasciando quindi indefinito l’ambito in cui intendeva sostenere lo sviluppo degli insediamenti ebraici e, secondo la sua interpretazione di giurista, “non contiene infine nessun riferimento alla religione o alle autorità religiose, né contiene una definizione di ebreo o di popolo ebraico, men che meno in chiave religiosa”, il che – per quanto sopra commentato – è vero solo formalmente.

Sacerdoti ammetteva però un limite alla Legge fondamentale dello Stato-Nazione e si tratta di un limite non di poco conto… “Manca però nella Legge del luglio scorso – Sacerdoti scrive il suo commento a caldo, nell’agosto 2018 – un elemento importante: nel momento in cui si proclama che Israele ha un carattere nazionale ebraico era opportuno ribadire che l’appartenenza o no al popolo ebraico, l’essere cioè ebrei, non può portare ad alcuna discriminazione in tema di riconoscimento dei diritti fondamentali ai cittadini israeliani non ebrei, siano essi arabi, drusi, immigrati russi non ebrei o chiunque altro.”

Il giornalista israeliano Gideon Levy, da sempre voce critica del governo Netanyahu e dei partiti religiosi che sostengono il suo Likud, è di parere opposto.

In un articolo su Haaretz, poi pubblicato in italiano sulla rivista Internazionale, rileva come la Knesset abbia risolto il conflitto semantico della definizione di Israele come Stato ebraico e democratico, le due realtà inconciliabili cui si riferisce il titolo di queste note: “la Knesset ha approvato una delle leggi più importanti della sua storia, oltre che quella più conforme alla realtà. La legge sullo Stato-Nazione (che definisce Israele come la patria storica del popolo ebraico, incoraggia la creazione di comunità riservate agli ebrei, declassa l’arabo da lingua ufficiale a lingua a statuto speciale) mette fine al generico nazionalismo di Israele e presenta il sionismo per quello che è. La legge mette fine anche alla farsa di uno stato israeliano “ebraico e democratico”, una combinazione che non è mai esistita e non sarebbe mai potuta esistere per l’intrinseca contraddizione tra questi due valori, impossibili da conciliare se non con l’inganno.

Se lo stato è ebraico non può essere democratico, perché non esiste uguaglianza. Se è democratico, non può essere ebraico, poiché una democrazia non garantisce privilegi sulla base dell’origine etnica. Quindi la Knesset ha deciso: Israele è ebraica. Israele dichiara di essere lo Stato nazione del popolo ebraico, non uno Stato formato dai suoi cittadini, non uno Stato di due popoli che convivono al suo interno, e ha quindi smesso di essere una democrazia egualitaria, non soltanto in pratica ma anche in teoria. È per questo che questa legge è così importante. È una legge sincera.”

Dichiarazione d'indipendenza

Il 14 maggio 1948 (vigilia di Shabbat, 5° giorno di Iyar dell’anno 5708, secondo il calendario ebraico) il governo provvisorio di Israele, alla scadenza del mandato britannico sulla Palestina, sottoscrive la Dichiarazione della creazione dello Stato di Israele.

È la Dichiarazione di indipendenza la radice e la perfetta sintesi delle due realtà inconciliabili presenti nella definizione di Israele come Stato ebraico e democratico.

Il riferimento al sionismo come motivo ispiratore della Dichiarazione è esplicitato fino dalle prime parole: “La Terra di Israele è stata il luogo di nascita del popolo ebraico. Qui è stata plasmata la sua identità spirituale, religiosa e politica. Qui ha vissuto una vita indipendente, qui ha creato valori culturali di portata nazionale e universale e ha dato al mondo l'eterno Libro dei Libri. Dopo essere stato esiliato con la forza dalla sua terra, il popolo le rimase fedele attraverso tutte le dispersioni e non cessò mai di pregare e di sperare nel ritorno alla sua terra e nel ripristino in essa della libertà politica.”

Né poteva mancare la citazione di Theodor Herzl, il fondatore del movimento sionista che tante speranze di un ritorno alla Terra promessa aveva creato, a partire dalla fine dell’Ottocento, nel popolo della Diaspora, che nel testo viene definito “padre spirituale dello Stato ebraico”.

È con questi presupposti – dopo aver premesso una lunga esposizione storica culminata con la Shoah – che i “membri del Consiglio del Popolo, rappresentanti dell'ebraica Comunità di Eretz-Israel e del Movimento sionista, qui riuniti il giorno della cessazione del mandato britannico su Eretz-Israel e, in virtù del nostro naturale e storico diritto e in forza della risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, con la presente dichiariamo la costituzione di uno Stato ebraico a Eretz-Israel, da riconoscersi come lo Stato di Israele.

L’indissolubile legame con l’ebraismo è dato dalla stessa definizione del nuovo Stato: Eretz Yisrael, la Terra che Yahweh aveva promesso ai discendenti di Giacobbe, così come citato nei testi sacri della Genesi e del Targum Yerushalmi: “E io assegno a te una parte in più che ai tuoi fratelli della terra che ho preso all’Amorreo con la mia spada e il mio arco”.

Chiarito il pilastro dell’ebraismo, la Dichiarazione dedica quasi tutto il restante testo alla descrizione del secondo pilastro su cui si fonderà il nuovo Stato: la sua impostazione democratica.

“Lo Stato di Israele favorirà lo sviluppo del paese a beneficio di tutti i suoi abitanti; sarà basato sulla libertà, la giustizia e la pace, come previsto dai profeti di Israele; garantirà la completa uguaglianza dei diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti indipendentemente dalla religione, dalla razza o dal sesso; garantirà la libertà di religione, di coscienza, lingua, educazione e cultura; salvaguarderà i Luoghi Santi di tutte le religioni e sarà fedele ai principi della Carta delle Nazioni Unite.”

Il nuovo Stato tende la mano alla popolazione palestinese e ai vicini Paesi arabi che non hanno accettato la decisione della nascita di Israele, in nome di una convivenza pacifica: “Facciamo appello - proprio nel bel mezzo dell'assalto lanciato contro di noi da mesi - agli abitanti arabi dello Stato di Israele per preservare la pace e partecipare alla costruzione dello Stato sulla base di una cittadinanza piena e paritaria e della dovuta rappresentanza in tutte le sue istituzioni provvisorie e permanenti.

Tendiamo la mano a tutti gli Stati vicini e ai loro popoli in un'offerta di pace e di buon vicinato, e facciamo appello per stabilire legami di cooperazione e di aiuto reciproco con il sovrano popolo ebraico insediatosi nella propria terra. Lo Stato di Israele è pronto a fare la sua parte in uno sforzo comune per il progresso dell'intero Medio Oriente.”

Pur riconoscendo ai firmatari della Dichiarazione e, in particolare, al suo promotore David Ben Gurion la sincerità di queste affermazioni, non si può non rimarcare alcune importanti omissioni nella ricostruzione storica degli avvenimenti che hanno portato alla Dichiarazione di indipendenza.

La Dichiarazione non ricorda che lo Stato di Israele nasce su un territorio più ampio di quello assegnato dalle Nazioni Unite; nasce (anche) dal terrorismo del gruppo paramilitare sionista Irgun, come l'attentato dinamitardo contro il quartier generale britannico del King David Hotel a Gerusalemme; nasce dalla pulizia etnica e dal sangue palestinese sparso dalle milizie paramilitari di Haganah e Irgun che distrussero villaggi, ne uccisero o minacciarono gli abitanti, costringendoli all’abbandono delle loro terre.

La Dichiarazione garantisce il ritorno in Palestina “al popolo ebraico di tutta la diaspora”, ritorno in una terra che non avevano mai conosciuto se non sui libri, mentre Israele la negherà sempre a oltre settecentomila palestinesi, a tanto ammontano – comprendendo anche gli esili volontari – le vittime della Nakba (la Catastrofe) come gli arabi ricordano l’esodo dal territorio su cui nascerà Israele, che quella terra abitavano da generazioni.

Anche l’uguaglianza dei diritti civili è rimasta sostanzialmente sulla carta: per acquisire la cittadinanza israeliana per gli ebrei basta dimostrare lo ius sanguinis (cioè la discendenza ebraica), mentre per i non ebrei vale lo ius soli (cioè la residenza in territorio israeliano, ma solo per coloro che erano presenti al momento della dichiarazione d’indipendenza). Ancora oggi la legge vieta il ricongiungimento familiare di esuli parenti di un cittadino arabo-israeliano.

A sottolineare la sostanziale equivalenza giuridica dei termini ebraico e israeliano, c’è poi l’assenza sulle carte d’identità israeliane di ogni riferimento alla nazionalità, sostituita (fino alla definitiva rimozione nel 2015) dall’appartenenza etnica: alla voce nazionalità (le’om in ebraico) non compariva il termine israeliana, ma ebraica, araba, drusa, circassa… Ancora oggi, dopo la cancellazione di ogni riferimento all’etnicità, sul documento di identità si distingue solo fra: cittadino, residente permanente (è il caso soprattutto degli abitanti siriani delle Alture del Golan e di quelli palestinesi di Gerusalemme est) o residente temporaneo.

Se la connotazione ebraica dello Stato di Israele ha segnato, fin dalle origini, tutta la sua storia e se la Legge fondamentale del 2018 non è stata altro che la sua esplicita sanzione, ha dunque ragione Gideon Levy quando sostiene che l’autodefinizione di Israele, tenacemente sostenuta per oltre settant’anni, come Stato ebraico e democratico è “una combinazione che non è mai esistita e non sarebbe mai potuta esistere per l’intrinseca contraddizione tra questi due valori, impossibili da conciliare, se non con l’inganno”?

Sì, e l’inganno è esattamente aver mantenuto in tutta la sua storia una forma distorta di democrazia, una democrazia limitata in cui i diritti civili sono garantiti ai soli ebrei e a una ristretta minoranza araba. L’evoluzione naturale verso uno Stato ebraico che estenda i propri confini dal Mediterraneo al Giordano, comprendendo tutti i territori occupati temporaneamente da cinquantatre anni – evoluzione di cui il cosiddetto Accordo del secolo, cioè il piano di pace predisposto da Jared Kushner, genero e consigliere speciale del Presidente Trump è una tappa decisiva – porrà fine all’inganno.

Già oggi la popolazione araba in Palestina, non considerando i milioni di rifugiati nella vicina Giordania, supera la popolazione ebraica e uno Stato ebraico che in un futuro più o meno prossimo si estenda sull’intera Eretz Yisrael, la Terra promessa delle sacre scritture, dovrà confinare i sette milioni di palestinesi che vi abitano in piccole enclavi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, attribuendo a questi territori una finta indipendenza come quella dei bantustan nel Sudafrica del secolo scorso.

Israele si trasformerà definitivamente in una Nazione ebraica esplicitamente non democratica, perché basata sull’apartheid. Nel conseguire questo risultato potrà contare sulla scarsa rilevanza della componente progressista interna (rappresenta meno del 20% dell’elettorato), sull’appoggio di gran parte della comunità internazionale – a partire dagli Stati Uniti – e sulla opposizione solo a parole della restante parte e, infine, sull’accettazione degli Stati arabi, ben contenti di sacrificare la difesa dei diritti del popolo palestinese agli interessi convergenti con Israele nell’opposizione all’Iran.


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