Alla fine, non importa in quale lingua si dica apartheid
Di solito associamo l’apartheid alla segregazione imposta dalla minoranza bianca alla maggioranza nera
in Sudafrica fino ai primi anni Novanta. È possibile attribuirla anche a uno Stato come Israele?
Nello scorso mese di luglio, più o meno negli stessi giorni, due organizzazioni israeliane per i diritti umani hanno pubblicato due distinti rapporti che analizzano il regime di occupazione di Israele in Cisgiordania alla luce delle definizioni di apartheid fornite dalle Nazioni Unite e dalla Corte penale internazionale. Entrambi i rapporti hanno concluso che in Cisgiordania l’apartheid – considerato dall’ONU e dalla Corte penale un crimine contro l'umanità – viene perpetrato: gli autori del crimine sono israeliani e le vittime sono palestinesi.
I due rapporti sono stati redatti nel mese di giugno in previsione dell’annessione della Valle del Giordano e di parte della Cisgiordania da parte di Israele, annunciata dal premier Netanyahu per il 1° luglio. Com’è noto, il governo israeliano ha poi rinviato la prevista annessione, non tanto per la ferma condanna da parte delle Nazioni Unite (condanne simili sono state ignorate da Israele quando ha illegalmente annesso Gerusalemme Est, assegnata ai palestinesi, e le alture del Golan, in territorio siriano), ma perché consigliato in tal senso dall’amministrazione Trump per non acuire un clima – interno e internazionale – già teso.
Il rinvio dell’annessione è stato inserito il 13 agosto scorso come clausola nell’accordo fra Israele ed Emirati Arabi Uniti, raggiunto con la mediazione del Presidente Trump, per la normalizzazione dei rapporti fra i due Paesi. Il premier Netanyahu ha però voluto precisare che la prevista annessione è solo “temporaneamente sospesa” e che “non rinunceremo mai ai nostri diritti sulle nostre terre”.
Il rapporto Zulat
Il 7 luglio Zulat ("il Prossimo" in ebraico), un think tank di attivisti dedicato alla difesa dei diritti umani e a una politica per l'uguaglianza, ha pubblicato Whitewashing Apartheid: How Netanyahu manipulated language to hide the consequences of unilateral annexation.
Il rapporto parte dalla considerazione che, nonostante le promesse di Netanyahu, il suo piano di annessione/ applicazione della sovranità non sia ancora stato attuato, ma rimane, tuttavia, all'ordine del giorno e serve al governo a distogliere l'attenzione dell'opinione pubblica israeliana dalla seconda ondata di Covid 19 e dalla crisi economica.
Ma come si è trasformato il progetto di annessione da un'idea estrema, marginale e allucinatoria che porta chiaramente all'apartheid nell’elemento più importante dell’agenda politica del governo israeliano? Come ha fatto Netanyahu a ingannare nuovamente il popolo israeliano?
Il rapporto cerca di dare una risposta a questa domanda. Le azioni e le dichiarazioni di Netanyahu degli ultimi mesi rivelano, secondo lo studio di Zulat, uno sforzo di reiterare continuamente lo stesso messaggio, con un unico obiettivo in mente: realizzare un piano che renda accettabile l’apartheid con la conservazione di Israele come Stato formalmente democratico.
Per illustrare le varie fasi di questo processo, giocato contestualmente dai media e dagli attori politici, per legittimare e normalizzare l'idea di annessione tra il pubblico israeliano, facendo apparire legale un atto illegale quale l’annessione di un territorio occupato, Zulat utilizza la metafora di un ciclo di lavaggio in una lavatrice a gettoni, come se l’apartheid fosse un indumento da sbiancare.
COME DISSIMULARE L'APARTHEID IN 7 SEMPLICI PASSI
Il rapporto si concentra quindi sulla propaganda messa in atto dal governo per convincere i cittadini che l’annessione sarebbe stata la naturale evoluzione della situazione attuale e che in realtà si tutelavano gli interessi dei coloni (illegalmente) stanziati nella Cisgiordania occupata, ma che si mantenevano intatti i diritti dei palestinesi nelle città affidate all’Autorità Nazionale Palestinese.
Sono gli stessi concetti, ripetuti ossessivamente in questi mesi, già espressi il 28 gennaio scorso, quando Trump e Netanyahu presentarono quello che definirono L’accordo del secolo (che accordo non era in quanto una delle due parti, quella palestinese, era assente), cioè il piano di pace – Peace to Prosperity. A Vision to Improve the Lives of the Palestinian and Israeli People – predisposto dal genero del presidente americano, Jared Kushner.
Già allora si proponeva la creazione di uno Stato palestinese smilitarizzato che vivesse pacificamente accanto a Israele, cui sarebbe toccata la responsabilità della sicurezza ad ovest del fiume Giordano. Solo successivamente e gradualmente sarebbero state concesse ai palestinesi maggiori responsabilità in materia di sicurezza, che Israele avrebbe contestualmente ridotto.
Si garantiva che né i palestinesi né gli israeliani sarebbero stati sradicati dalle loro case; che Israele avrebbe congelato nuovi insediamenti per quattro anni per garantire la possibilità di una soluzione a due Stati (promessa immediatamente violata dal governo israeliano).
Si confermava la contestata nomina dell’intera Gerusalemme a capitale di Israele, mentre paradossalmente si prevedeva che la capitale del futuro Stato di Palestina sarebbe stata Al-Quds (il nome con cui gli arabi chiamano Gerusalemme), ma comprendesse solo le aree di Gerusalemme Est, peraltro già in parte occupate da insediamenti ebrei.
Ai rifugiati palestinesi sarebbe stata data la possibilità di scegliere se vivere all'interno del futuro Stato della Palestina, integrarsi nei paesi in cui vivono attualmente (cioè diventare cittadini israeliani senza diritti) o reinsediarsi in un paese terzo (ovvero emigrare, cosa che hanno già fatto milioni di palestinesi negli ultimi settant’anni).
Il rapporto Yesh Din
Il 9 luglio 2020 l'organizzazione israeliana per i diritti umani Yesh Din (“C’è giustizia” in ebraico) ha pubblicato il suo rapporto: The Israeli Occupation of the West Bank and the Crime of Apartheid: Legal Opinion.
Poiché i volontari di Yesh Din sono prevalentemente esperti nella tutela dei diritti umani e avvocati (è avvocato anche l’estensore materiale del rapporto, Michael Sfard), il rapporto si concentra non solo sulle modalità dell’annessione della Cisgiordania prospettate nel piano di pace, ma sulla politica israeliana discriminatoria verso la popolazione palestinese nei propri confini, oltre che nei territori occupati. Queste politiche, analizzate per molti anni, vengono confrontate con la definizione giuridica di apartheid. Nel diritto internazionale, infatti, ci sono oggi due definizioni di apartheid: quella della Convenzione internazionale delle Nazioni Unite adottata nel novembre 1973 ed entrata in vigore nel luglio 1976 e quella dello Statuto di Roma, entrato in vigore nel luglio 2002, che istituisce il Tribunale penale internazionale e considera l'apartheid uno dei dieci crimini contro l'umanità che rientrano nella sua giurisdizione. I due testi differiscono su alcuni punti, ma concordano su una base comune, secondo la quale l’apartheid si sostanzia anche in "atti disumani commessi nell'ambito di un regime istituzionalizzato di oppressione sistematica e dominio di un gruppo razziale su un qualsiasi altro gruppo razziale o su tutti i gruppi razziali e con l'intenzione di mantenere questo regime”.
Lo stato di Israele è un regime di apartheid? Per decenni l'accusa è stata proposta con crescente intensità e frequenza contro le autorità israeliane per la forma arbitraria e brutale di amministrazione imposta alla Cisgiordania e ai suoi abitanti, per il trattamento discriminatorio dei suoi cittadini palestinesi, il controllo totale su Gerusalemme Est, il suo comportamento con i beduini del Negev o la natura stessa del sionismo quale si è andato sviluppando nel corso della sua storia.
La costruzione, dall'inizio degli anni 2000, del muro e della recinzione chiamata barriera di sicurezza da parte del governo israeliano, che stabilisce una vera separazione di fatto tra coloni israeliani e palestinesi, è stata un passo importante nella costruzione dell’accusa di apartheid. Una apartheid doppia, perché il muro e la barriera generalmente separano gli israeliani dai palestinesi, ma anche, in diversi punti (per esempio a est di Gerusalemme) i palestinesi da altri palestinesi.
Yesh Din – grazie all’esperienza accumulata in quindici anni, nei quali ha fornito assistenza legale ai palestinesi i cui diritti fossero stati violati dalle autorità israeliane o da cittadini israeliani – ha analizzato la natura del regime militare in Cisgiordania, nonché le leggi, le pratiche e le politiche attuate nei territori occupati della Cisgiordania.
Sono stati vagliati:
- gli insediamenti illegali;
- le massicce espropriazioni, spesso con il pretesto della sicurezza;
- l’appropriazione di risorse, soprattutto idriche, a beneficio dei coloni e a danno dei residenti palestinesi;
- l'esistenza del doppio sistema legale istituito nel territorio, ovvero una legge applicabile agli israeliani e un'altra ai palestinesi.
Il rapporto precisa anche come l’apartheid non sia necessariamente legata a un’ideologia razzista, perché "oggi è una particolare forma di crimine contro l'umanità, che corrisponde a una definizione precisa. Sebbene la sua origine sia storicamente legata al regime razzista in Sudafrica, ora è un concetto legale indipendente che può esistere senza essere basato su un'ideologia razzista”.
Per attribuire a Israele una politica di apartheid occorreva dimostrare che pratichi o abbia praticato, in tutto o in parte, quegli "atti disumani" che caratterizzano questo crimine contro l’umanità: “a dottare misure legislative o di altra natura intese a impedire a un gruppo razziale o a più gruppi razziali di partecipare alla vita politica, sociale, economica e culturale del paese e creare deliberatamente condizioni che ostacolino il pieno sviluppo del gruppo o dei gruppi in questione, in particolare privando i membri di un gruppo razziale o di diversi gruppi razziali di diritti umani e libertà fondamentali, incluso il diritto al lavoro, il diritto di formare sindacati riconosciuti, il diritto all'istruzione, il diritto a lasciare e tornare nel proprio paese, il diritto a una nazionalità, il diritto di circolare liberamente e di scegliere la propria residenza, il diritto alla libertà di opinione e di espressione e il diritto alla libertà di riunione e associazione".
Tenendo conto delle definizioni di apartheid accettate dal diritto internazionale e degli "atti disumani" che lo caratterizzano, lo studio vuole provare che l’apartheid esiste in Cisgiordania, alla luce delle istituzioni, dei regolamenti, delle leggi e delle pratiche stabilite da Israele in tutti i territori che occupa e colonizza.
Una componente importante dello stato di apartheid è la presenza, nello stesso spazio geografico, di due gruppi nazionali, fatto evidente in Cisgiordania, dove convivono ebrei e palestinesi israeliani che costituiscono l'86% della popolazione totale. Ma la situazione locale è speciale, notano gli autori del rapporto, perché, oltre al "dominio e all'oppressione” dell'occupazione militare, c'è la presenza di una grande popolazione di coloni. Che, indiscutibilmente, costituisce "un elemento del crimine di apartheid". Tanto più è evidente la disuguaglianza tra gli statuti civili e politici degli uni e degli altri.
“Una delle comunità – si sottolinea nel documento – è formata da civili che vivono sotto occupazione, sotto l'autorità di militari e soggetti a leggi di cui non possono in alcun modo influenzare la creazione. L'altra è composta da cittadini del paese occupante. Il primo gruppo non ha diritti civili, il secondo ha diritti civili completi e ha tutta l'influenza politica di cui godono i cittadini di una democrazia. Uno è politicamente invisibile mentre l'altro gode di un grande potere politico."
Un'altra caratteristica della separazione tra israeliani e palestinesi in Cisgiordania è il regime di permessi che si applica solo ai palestinesi. Nessun palestinese può entrare in un'area in cui vi sia una presenza israeliana – civile o militare – senza un motivo specifico e, soprattutto, senza che sia stata rilasciata un'autorizzazione speciale dall'amministrazione civile israeliana, cioè dal ramo dell'esercito che gestisce l'occupazione.
Inizialmente, l'obiettivo era vietare l'ingresso dei palestinesi negli insediamenti, quindi nello spazio che li circonda, noto come zona di sicurezza speciale. Successivamente, dopo la costruzione del muro/barriera che ha sostanzialmente separato dalla Cisgiordania centinaia di chilometri quadrati di terra palestinese vicini alla cosiddetta linea verde, cioè il confine di Israele prima dell’occupazione del 1967, il regime dei permessi è stato esteso a questa zona di giunzione.
E i palestinesi che si trovano separati dai loro campi coltivati dal muro devono avere un permesso per coltivare la loro terra o vegliare sui loro frutteti, mentre qualsiasi turista ebreo israeliano o straniero può accedervi liberamente. Secondo uno studio condotto dall'Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA), tra 67 comunità palestinesi solo il 18% degli agricoltori che coltivano terreni nella zona di giunzione ha ottenuto il permesso necessario per continuare l'attività agricola.
A questo regime di permessi si aggiunge, per sottolineare ulteriormente la separazione tra israeliani e palestinesi, una doppia rete stradale: i veicoli palestinesi hanno accesso solo a un groviglio di tortuose strade laterali che costringe a lunghe deviazioni e ad attraversare tunnel quando incrociano una strada principale per soli israeliani; mentre i coloni possono circolare senza mai incontrare i veicoli con le targhe bianche e verdi emesse dall'Autorità Palestinese.
I diritti civili, la forma di cittadinanza, il regime dei permessi o la separazione delle reti stradali, le disposizioni sulla terra, la pratica dell'espropriazione e l'accesso differenziato dei due gruppi nazionali alle terre statali costituiscono, agli occhi degli esperti di Yesh Din, prove della discriminazione attuata arbitrariamente da decenni.
Citando una controversa interpretazione della Legge ottomana sulla terra del 1858, che considera terra demaniale tutti i terreni agricoli che non siano stati continuativamente coltivati, l'amministrazione israeliana tra il 1978 e il 1992 ha espropriato quasi il 30% della Cisgiordania. Gran parte di questa terra, originariamente utilizzata dai palestinesi per allevare bestiame e mantenere i loro villaggi, era - ed è tuttora - destinata alla costruzione e alla continua espansione degli insediamenti.
Gli autori del rapporto Yesh Din scoprono che, secondo i documenti consultati, solo lo 0,24% di "terra statale" è stato assegnato dal 1967 a "entità palestinesi", mentre del restante 99% più di un quarto è stato attribuito all'Organizzazione mondiale sionista con il compito di creare nuovi insediamenti, a insediamenti già esistenti, ai ministeri israeliani o alle grandi compagnie israeliane.
Oltre a questi espropri ordinati ed eseguiti dallo Stato israeliano, gli autori del rapporto sottolineano gli "stanziamenti violenti" praticati dai coloni. "Anche se questa violenza non è perpetrata dal regime – notano gli esperti – la cecità intenzionale delle autorità, l'assenza di qualsiasi volontà di far rispettare la legge e la legittimazione retroattiva da parte delle autorità della presenza dei coloni sulla terra che hanno appena preso illegalmente non lascia altra scelta se non quella di ritenere il regime responsabile." Secondo uno studio di Yesh Din condotto nel gennaio 2019 e citato nel rapporto, quasi 30 avamposti occupati illegalmente dai coloni sono stati autorizzati retroattivamente e altri 70 sono in procinto di regolarizzazione.
“Oltre a queste discriminazioni in termini di diritti e utilizzo delle risorse, il regime di occupazione utilizza varie misure, alcune delle quali draconiane, per eliminare tutte le forme di resistenza, anche quando non è violenta , osserva il rapporto, mentre i militari limitano le proteste non violente e vietano manifestazioni, riunioni pubbliche e processioni. Il regime di occupazione si basa sistematicamente sulla detenzione amministrativa (cioè senza la necessità di convalida da parte di un giudice) e sulla criminalizzazione delle associazioni politiche per prevenire qualsiasi opposizione. Tutte le principali organizzazioni politiche palestinesi, tra cui Fatah e l'OLP con cui il governo israeliano ha concluso accordi, sono state dichiarate associazioni o organizzazioni terroristiche e migliaia di palestinesi sono stati incarcerati per la loro appartenenza a tali organizzazioni, anche se non hanno preso parte a nessuna azione violenta."
In aggiunta alla negazione di qualsiasi espressione e rappresentatività democratica attribuite ai palestinesi in Cisgiordania e alla negazione di qualsiasi libertà di residenza e movimento, questa criminalizzazione di ogniopposizione, anche non violenta, conferma che la conservazione e la protezione del regime imposto dall'occupante è una delle principali caratteristiche delle istituzioni israeliane operanti in Cisgiordania. "I cambiamenti che i governi israeliani hanno inflitto alla Cisgiordania sono stati così profondi, gli sforzi per rafforzare la presa israeliana sulla regione e indebolire i palestinesi così intensi che le prove, accumulate nel corso degli anni, dell'intenzione di Israele di mantenere il suo controllo permanente sulla regione sono solide, al punto da essere inequivocabili, manifeste e convincenti. E l’ intenzione di mantenere un regime oppressivo istituzionalizzato è uno dei criteri che definiscono l’apartheid come crimine contro l’umanità.
Le conclusioni del rapporto sono che in Cisgiordania viene perpetrato il crimine contro l'umanità dell'apartheid: gli autori sono israeliani e le vittime sono palestinesi. L'annessione strisciante con sempre nuovi insediamenti, per non parlare dell'annessione formale di una parte della Cisgiordania, con una legislazione che avrebbe applicato la legge e l'amministrazione israeliana in tutto il territorio occupato, è una fusione dei due regimi, quello vigente nello Stato di Israele e quello applicato nei territori occupati. Ciò sembra rafforzare l'accusa che l’apartheid non sia praticata solo in Cisgiordania e che il regime israeliano, nel suo insieme, sia un regime di apartheid, che Israele sia uno Stato di apartheid. Ciò è deplorevole e vergognoso. E mentre non tutti gli israeliani sono colpevoli di questo crimine, ne siamo tutti responsabili. È dovere di tutti agire con fermezza per porre fine a questo crimine."
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Le frasi virgolettate e in corsivo sono la traduzione fedele di frasi contenute nel rapporto di Yesh Din, pubblicato in inglese.
Il titolo di questo pezzo è tratto da un articolo di Jonathan Ofir, artista e scrittore dalla doppia cittadinanza israeliana e danese.
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