Rilancio: lo Stato garante del valore di tutto?

 


Saprà lo Stato cogliere l’opportunità offerta dalla necessità di far ripartire l’economia e, con le imprese private, promuovere una profonda, radicale riconversione ambientale e sociale dell’economia?


La Cassa Depositi e Prestiti come nuova IRI?

Se - come ha ricordato l’ex governatore della BCE, Mario Draghi, in un suo articolo sul Financial Times - compito precipuo dello Stato di fronte alla crisi economica conseguente la pandemia sarà quello di aumentare considerevolmente il debito pubblico per assorbirvi quello privato e se - come ha più recentemente affermato l’economista italo-americana Mariana Mazzucato - lo Stato non dovrà limitarsi a sovvenzionare le imprese private, ma dovrà affiancarle diventando esso stesso imprenditore e motore delle necessarie innovazioni, il ruolo della Cassa Depositi e Prestiti diventerà cruciale.

La CDP è infatti il principale strumento per la partecipazione pubblica nell’industria italiana e a questo punto, considerata l’ampiezza dell’ intervento pubblico nell’assorbire il debito privato, il suo futuro potrebbe essere diventare una nuova IRI, l’Istituto che fu fra i protagonisti del cosiddetto miracolo economico degli anni ’60 del secolo scorso.

I nemici dello Stato imprenditore riproposto oggi da Mariana Mazzucato sostengono che il ruolo giocato dall’IRI nella ricostruzione industriale del secondo dopoguerra era dovuto alle circostanze eccezionali in cui si trovava l’Italia alla fine della guerra: occorreva ricostruire una rete per la mobilità stradale, aerea e ferroviaria, ripristinare i servizi di pubblica utilità come le reti telefonica ed elettrica, convertire l’industria bellica, rifondare l’industria di base nei settori siderurgico, chimico, petrolifero ed edilizio; le ingenti risorse finanziarie non potevano che venire dall’intervento pubblico. La "formula IRI" cioè la cooperazione tra capitale pubblico e capitale privato sarebbe dovuta cessare, secondo questi critici, una volta superata l’emergenza, affidando nelle sole mani private lo sviluppo della rialzata economia.

Chi si oppone oggi allo Stato imprenditore sottolineando l’eccezionalità delle condizioni economiche all’indomani della Seconda guerra mondiale dimentica che proprio Mario Draghi sul Financial Times ha paragonato la crisi economica post Covid-19 proprio a quel dopoguerra.

Certo, forse oggi nella pubblica amministrazione non vi sono imprenditori del calibro di Enrico Mattei, Oscar Sinigaglia, Ernesto Manuelli o Guglielmo Reiss Romoli che furono allora i protagonisti del “miracolo italiano”, ma le problematiche che oggi deve affrontare l’economia italiana non sono diverse da allora. È però assai diverso il contesto in cui oggi il capitale pubblico e privato si trovano a operare.

Negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso lo Stato, attraverso le imprese dell’IRI, poteva farsi carico dei costi e delle diseconomie di investimenti che privilegiavano finalità sociali oltre alla redditività imprenditoriale perché le prospettive di sviluppo economico consentivano di confidare, come in effetti accadde, in una tumultuosa crescita e in bilanci in attivo che ampiamente compensarono le perdite iniziali.

Oggi l’obiettivo da perseguire non è un’impossibile riedizione della crescita illimitata che ha caratterizzato l’economia globale negli scorsi sessant’anni, fino almeno alla crisi del 2008-09; i più ottimisti continuano a proporre uno “sviluppo sostenibile” che, dal punto di vista economico, è sostanzialmente un ossimoro (anche la Cina, per la prima volta in 25 anni, oggi ha rinunciato a fissare gli obiettivi di sviluppo della propria economia). Considerata l’impossibilità di continuare nello sfruttamento incontrollato delle risorse ambientali e del lavoro di una parte cospicua della popolazione mondiale (la più povera), l’obiettivo da perseguire non potrà essere lo sviluppo, ma una profonda e radicale riconversione ambientale e sociale dell’economia.

Ancora una volta dovrà essere il capitale pubblico a investire su questo obiettivo.

Il valore di tutto

Forse c’è una strada diversa dall’intervento diretto nella gestione economica che consenta allo Stato italiano di svolgere il suo compito nel perseguimento di questa riconversione dell’economia.

E qui, a mio avviso, soccorre ancora Mariana Mazzucato che nel suo Il valore di tutto. Chi lo produce e chi lo sottrae nell’economia globale si pone il problema di chi oggi crei davvero ricchezza, che l’autrice definisce con il termine “valore”, mutuato dall’economia classica, distinguendo la sua creazione dalla sua estrazione.

Per Mazzucato la crisi economica e finanziaria degli ultimi anni ha evidenziato il problema di fondo dell’attuale capitalismo che ricompensa maggiormente l'estrazione del valore, cioè l’accumulazione dei profitti (dai dividendi degli azionisti alle rendite assicurate a dirigenti e banchieri) di quanto non sia ricompensata la creazione effettiva di valore.

In definitiva, oggi il moderno capitalismo privilegia chi guadagna rispetto a chi produce, provocando – come Thomas Piketty ha dimostrato nei suoi due ponderosi volumi Il capitale nel XXI secolo Capitale e ideologia – un aumento progressivo delle disuguaglianze, dovute all’insufficiente tassazione delle attività finanziarie e al fatto che la ricchezza viene trasferita (ereditata) semplicemente attraverso un processo cumulativo.

Una riforma del capitalismo che porti a una distribuzione più equa della ricchezza non può prescindere dal rovesciamento dell’egemonia della finanza sull’economia reale; un processo che non può che partire da una delle attività più rischiose e incerte del moderno capitalismo, l’economia dell’innovazione. Abbiamo già visto come, in questo ambito, i rischi siano di solito socializzati, mentre le remunerazioni siano privatizzate.

Grazie ai brevetti, il capitale si appropria della commercializzazione dei prodotti innovativi, frutto spesso di ricerca e di sviluppo operati in laboratori pubblici, ignorando quindi l’apporto dato dalla collettività alla creazione della ricchezza. Questo avviene in ambito farmaceutico (come dimostra l’odierna corsa di Big Pharma a produrre un vaccino contro il Covid-19 in vista di profitti miliardari; sono lontani i tempi in cui Jonas Salk, il ricercatore cui si deve – con Albert Sabin – la scoperta del vaccino contro la poliomelite, rinunciava ai guadagni milionari di un suo sfruttamento economico affermando: “Si può forse brevettare il Sole?”), come in campo informatico, dell’intelligenza artificiale e delle nuove tecnologie.

Ed è esattamente qui che può rientrare lo Stato innovatore, immettendo nel sistema ingenti quantità di liquidità, ma indirizzandole al finanziamento di progetti innovativi ed ecocompatibili. Progetti che mirino a una progressiva e completa decarbonizzazione della produzione industriale e dei consumi legati all’abitare; per una produzione di energia elettrica basata esclusivamente su fonti rinnovabili; a una progressiva riduzione della mobilità legata ai combustibili fossili (già oggi treni ad alta velocità possono sostituire il trasporto aereo su base nazionale e, in parte, continentale); a una edilizia a basso impatto ambientale ed elevata efficienza energetica; a un accesso gratuito all’informazione digitale; all’abbandono degli allevamenti intensivi e dell’agricoltura dipendente dalla chimica; al potenziamento del servizio sanitario pubblico (di cui oggi si avverte drammaticamente l’esigenza, ma – si sa – la consapevolezza spesso si affievolisce con il superamento dell’emergenza) e di tutti i servizi pubblici oggi spesso privatizzati.

Il valore dell’intelligenza collettiva

Si tratta di obiettivi ambiziosi, forse velleitari, che prevedono il raggiungimento dei primi risultati in tempi medio-lunghi; per questo il ruolo statale come motore dinamico dei processi è fondamentale, in una collaborazione fra capitali e risorse pubbliche e private, ma sempre prevedendo una giusta remunerazione per la collettività.

Un’economia non più governata dal neoliberismo e neppure dallo statalismo, ma attingendo a un’intelligenza collettiva – per utilizzare il termine coniato da Pierre Lévy – che, invece di cercare modi per sostituire le persone con l'intelligenza artificiale, si concentra sulla combinazione della parte migliore degli esseri umani con la parte migliore delle macchine, che è sostanzialmente quanto propone anche Marco Montemagno, divulgatore e imprenditore digitale, nella serie di clip Che lavoro/i farai da grande? realizzata per RaiPlay.

Questo approccio sta diventando sempre più influente nella produzione industriale, nella ricerca scientifica e nell'attività governativa, in parte perché funziona, ma anche perché incarna i valori democratici e umanistici che molti di noi hanno a cuore. Chiunque abbia mai usato Wikipedia avrà già un'idea di come si realizzi l’intelligenza collettiva. Dagli anni '90 milioni di persone hanno collaborato online per rendere accessibili a tutti conoscenze affidabili sul mondo. Analogamente i dati provenienti da un’intelligenza distribuita vengono utilizzati oggi per tracciare la diffusione dell'epidemia COVID-19.

L'idea di fondo è che mobilizzando dati, approfondimenti e idee da una gamma quanto più ampia possibile di fonti, le organizzazioni di ogni tipo avranno maggiori possibilità di successo che se avessero fatto affidamento solo su algoritmi o sulle proprie risorse interne.

L’economia rivitalizzata dall’intelligenza collettiva.

La finanza al servizio dell’economia reale e non viceversa.

Non un ritorno a una normalità che aveva già dimostrato tutti i suoi limiti, ma la proiezione verso un futuro migliore

Post popolari in questo blog

La guerra e la comunità internazionale

Il pezzo sovraccarico