Paradisi senza palme
Ogni anno al bilancio statale mancano circa 7 miliardi
di incassi tributari elusi dalle imprese italiane che trasferiscono i profitti verso altri Paesi europei con una legislazione fiscale compiacente.
La Commissione europea ha sempre avuto un atteggiamento ambivalente nei confronti degli Stati membri responsabili di una politica fiscale aggressiva, avendo stipulato accordi fiscali anticipati (tax ruling) che hanno consentito a imprese multinazionali di eludere il pagamento delle imposte dovute in altri Stati dell’Unione.
Da una parte si è sempre rifiutata di avallare la decisione del Parlamento europeo nel marzo 2019 che individuava sette Paesi membri come paradisi fiscali nostrani per aver attirato utili che le imprese avevano generato altrove.
Dall’altra, soprattutto per opera della commissaria per la concorrenza della precedente Commissione Junker, Margrethe Vestager, la Commissione ha indagato sui casi più eclatanti di accordi fiscali illeciti, arrivando – ben prima della relazione del Parlamento europeo – a chiedere a numerose multinazionali (Apple, Amazon, Fiat, Starbucks) di rimborsare delle somme eluse gli Stati con cui avevano stipulato vantaggiosi accordi fiscali .
Non si trattava quindi di sanzioni, che avrebbero consentito all’Unione europea di restituire gli importi ai Paesi cui era stato illecitamente sottratto imponibile fiscale, ma di rimborsi agli stessi Paesi protagonisti dello sconto sulle imposte, ritenendo quindi illegittimi gli accordi di tax ruling, non la concorrenza fiscale operata dagli Stati membri.
Il 15 luglio scorso, il comportamento contraddittorio dell’Unione europea ha avuto una sua emblematica conferma: mentre il commissario per l’economia, Paolo Gentiloni, e quella per la concorrenza, la riconfermata Margrethe Vestager, si accingevano ad annunciare l’adozione di un piano per contrastare gli stati "a fiscalità agevolata" ribadendo il rischio che in alcuni paesi della UE ci siano politiche di pianificazione fiscale aggressiva che danneggino la parità di condizioni nel mercato unico, hanno dovuto prendere atto della sentenza della Corte di giustizia europea la quale ha annullato l’ordine dell'UE che imponeva a Apple di corrispondere all’Irlanda 14,3 miliardi di euro per gli accordi fiscali sottoscritti con Dublino e ritenuti illeciti della Commissione.
D’altronde, quale diversa decisione ci si poteva attendere se l’Irlanda, beneficiaria del rimborso e il cui PIL dipende in grande misura dalla sua politica di concorrenza fiscale, si era schierata apertamente a favore di Apple e contro la decisione della Commissione?
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La chiusura, conseguente al lockdown , di tante attività produttive e commerciali (molte delle quali potrebbero non riuscire a riaprire allorché ne saranno autorizzate); la riduzione delle entrate di tanti lavoratori autonomi o liberi professionisti, dovuta al drastico calo della clientela e la riduzione della produzione nelle imprese rimaste attive, dovute sia alle misure di sicurezza dei lavoratori (distanziamento sociale in fabbrica), sia a difficoltà di reperimento delle materie prime necessarie ha avuto effetti devastanti innanzitutto sulla vita delle persone, ma anche su quell’indice a cui tutti guardano per valutare il benessere di un Paese, il prodotto interno lordo.
Secondo le stime di Eurostat, l’Ufficio statistico dell'Unione europea, nel primo quadrimestre del 2020 la contrazione del PIL nei 19 Paesi della zona Euro è stata del 3,3% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, con un dato assai peggiore per l’Italia (-4,9%).
Le previsioni per il secondo quadrimestre saranno verosimilmente ancora più pessimistiche , considerato che nel primo quadrimestre gli effetti del lockdown sul sistema produttivo si sono registrati praticamente solo nei mesi di marzo e aprile e messo anche in conto che nel periodo maggio-agosto una voce rilevante del PIL di molti Paesi - Italia inclusa - è costituito dal settore turistico. il più colpito dalla crisi.
Dopo pochi giorni dall’inizio della pandemia, tutti i Paesi hanno emanatoprovvedimenti di urgenza innanzitutto con misure di potenziamento del servizio sanitario nazionale per affrontare l’emergenza epidemiologica e cercare di contenerne la diffusione, ma anche provvedimenti per sostenere famiglie, lavoratori e imprese particolarmente colpite dalla crisi economica conseguente. Si è trattato ovviamente di interventi “a pioggia” perché non c’era tempo per discriminare o favorire solo parte della popolazione. In Italia il governo ha emanato due decreti legge per il sostegno economico alla popolazione particolarmente colpita dall'emergenza da COVID-19 (il D.L. 2 marzo 2020 n. 9 e il D.L. 17 marzo 2020 n. 18 , quest'ultimo denominato CuraItalia).
Già però dal mese di aprile si sono adottate, pressoché in tutta Europa, misure più mirate a rilanciare la produzione industriale, prevedendo sovvenzioni, prestiti o sgravi fiscali per le imprese. Allo stesso tempo si è posto il problema di una equa allocazione delle risorse, privilegiando le imprese che avessero effettivamente bisogno di un sostegno pubblico e che “se lo meritassero”.
Il governo danese il 18 aprile scorso ha emanato una serie di misure per la ripartenza industriale, ma il testo – approvato all’unanimità dal Folketing , il parlamento locale – ha escluso dalle sovvenzioni statali le società che distribuiranno dividendi nel 2020 e 2021 (non ne hanno bisogno) e quelle che abbiano filiali nei paradisi fiscali (non se lo meritano).
Anche il governo francese – su sollecitazione del principale partito di opposizione di sinistra, la France Insoumise – ha garantito che le aziende francesi che hanno sede legale o fiscale in paradisi fiscali non potranno beneficiare delle sovvenzioni statali.
La ratio delle due esclusioni è abbastanza chiara: aziende che abbiano accumulato utili tali da distribuirli come dividendi agli azionisti non hanno evidentemente bisogno di un aiuto pubblico; analogamente aziende che praticano (del tutto legalmente) elusione fiscale, sottraendo cioè imponibile al Paese dove svolgono la loro attività produttiva e trasferendo gli utili in Paesi che offrono aliquote fiscali molto più favorevoli, non dovrebbero beneficiare dell’aiuto di un Paese cui sottraggono – ripeto, legalmente – cospicue entrate fiscali.
Buchi neri fiscali
Cosa sono e quali sono dunque questi paradisi fiscali? Sono Paesi che praticano una concorrenza fiscale nei confronti degli altri Stati, stringendo accordi con grandi imprese e multinazionali che prevedanoun abbattimento dell’aliquota fiscale, in modo da attirare capitali esteri nelle proprie banche e, incidentalmente, ottenere un aumento ingannevole del proprio PIL.
Già vent’anni fa l’OCSE, l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, ha stilato un primo elenco di paradisi fiscali composto da 49 Paesi, per la maggior parte isole tropicali di difficile individuazione su una carta geografica. Nessun Paese europeo era incluso nella lista. Nei successivi aggiornamenti, il numero dei paradisi fiscali si è ridotto, ma ha continuato a non includere alcun Paese europeo.
Anche l’Unione Europea ha una sua black list, una lista nera di 12 Paesi con “giurisdizioni non cooperative a fini fiscali” (Samoa americane, Fiji, Guam, Oman, Samoa, Trinidad e Tobago, Isole Vergini Americane, Vanuatu, Isole Cayman, Palau, Panama e Seychelles), aggiornata lo scorso febbraio da Ecofin, il consiglio composto dai ministri dell'economia e delle finanze degli Stati membri.
Il Parlamento europeo però, in seguito a rivelazioni sulla diffusione delle pratiche di evasione ed elusione fiscale nel mondo (come la pubblicazione dei cosiddetti Panama Papers che fornirono nel 2016 informazioni dettagliate su oltre 214.000 società offshore, cioè che conducono la propria attività al di fuori dello Stato o della giurisdizione in cui sono registrate) ha istituito nel marzo 2018 una Commissione speciale sui reati finanziari, evasione ed elusione fiscale (Tax3) .
L’anno seguente, la Commissione ha presentato i risultati del suo lavoro al Parlamento europeo che indicano come sette paesi dell'UE (Belgio, Cipro, Ungheria, Irlanda, Lussemburgo, Malta e Paesi Bassi) presentino alcune caratteristiche che facilitano le “pianificazioni fiscali aggressive”. In particolare la relazione punta il dito sui Paesi Bassi, che, agevolando queste pratiche di concorrenza fiscale, privano altri Stati membri di un gettito fiscale stimato in più di undici miliardi di euro.
Il Parlamento, nella seduta del 27 marzo 2019, ha approvato a grande maggioranza (505 voti favorevoli, 87 astensioni e 63 voti contrari) la relazione della Commissione, deplorando “che alcuni Stati membri confischino la base imponibile di altri Stati membri attirando utili generati altrove, consentendo così alle imprese di ridurre artificialmente la propria base imponibile; evidenzia che questa pratica non solo danneggia il principio di solidarietà dell'UE, ma conduce anche a una redistribuzione della ricchezza nei confronti delle imprese multinazionali e dei loro azionisti a spese dei cittadini dell'UE”.
Purtroppo la Commissione europea si è sempre rifiutata di avallare questa decisione del Parlamento, nonostante Pierre Moscovici - allora commissario europeo per gli affari economici e monetari – avesse definito i sette Paesi membri buchi neri fiscali.
La Commissione europea ha ribadito anche lo scorso 29 aprile che non sono consentite discriminazioni verso aziende che abbiano trasferito la propria sede legale o fiscale in un altro Paese dell’Unione, in nome del principio della “ libera circolazione delle persone, delle merci e dei capitali all’interno dei Paesi membri ”.
Questa presa di posizione ha sostanzialmente svuotato l’impatto delle misure adottate da Danimarca e Francia e impedito all’Italia di recepire nei propri provvedimenti analoghe condizioni di esclusione dal sostegno pubblico.
Il caso FCA
Il governo italiano ha approvato due decreti legge rivolti al rilancio dell’attività industriale: il D.L. 8 aprile 2020 n. 23 Liquidità , contenente misure urgenti per le imprese in materia di accesso al credito, internazionalizzazione e adempimenti fiscali e il recente D.L. 19 maggio 2020 n. 34 Rilancio , contenente misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19).
Il Decreto Liquidità prevede garanzie pubbliche per favorire l'accesso al credito di imprese piccole, medie e grandi , oltre alla sospensione dei termini di scadenza dei titoli di credito.
Una componente della maggioranza, LEU - Articolo 1, aveva invano proposto di escludere dalla garanzia pubblica i prestiti concessi ad aziende che abbiano sede legale o fiscale in un Paese terzo. L’allusione era, neppure troppo velatamente, rivolta al maggiore gruppo automobilistico italiano, FCA Fiat Chrysler Automobiles, che ha sede legale in Olanda e domicilio fiscale in Gran Bretagna (unica azienda automobilistica europea che non abbia sede nel proprio Paese).
In Italia FCA paga le imposte d’impresa (IRES, imposta sul reddito delle società e IRAP, imposta regionale sulle attività produttive), ma elude quelle sugli utili, anche se la tassazione italiana sui dividendi delle società di capitali è particolarmente bassa: l’aliquota è del 20% ma si applica su una base imponibile pari al 5% del totale, quindi l’aliquota reale è solo dell’1,2% (cioè appena 1.200 euro ogni 100mila euro di utili). Il problema è che nei Paesi Bassi, dove FCA ha la sede legale, le plusvalenze, cioè gli utili, non sono tassate , per cui l’azienda ottiene un cospicuo risparmio fiscale.
In effetti il gruppo – tramite la sua filiale italiana – aveva lasciato intendere di volersi avvalere dei prestiti bancari garantiti dal pubblico, nonostante avesse liquidità sufficiente per far fronte direttamente ai propri impegni (liquidità dovuta, oltre agli utili accumulati, anche dalla vendita della Magneti Marelli).
E, infatti, FCA ha ottenuto un prestito da Banca Intesa San Paolo, principale istituto bancario italiano, un prestito di 6,3 miliardi di euro, per l’80% garantiti dalla Stato Italiano tramite la finanziaria Sace dela Cassa Depositi e Prestiti.
La garanzia doveva però essere approvata dal Ministero dell’Economia, previo parere della Commissione Finanze di Camera e Senato: la prima a pronunciarsi è stata quella della Camera che ha bocciato non solo un emendamento che condizionava gli aiuti per le imprese alla loro residenza fiscale in Italia, ma anche emendamenti per sospendere per tutta la durata del prestito i dividendi agli azionisti assistiti dal debito pubblico (sospensione approvata solo per l’anno in corso) e per limitare le retribuzioni eccessive dei manager a 20 volte il salario di un operaio.
Le uniche condizioni che il governo ha chiesto a FCA sono: l’ attuazione del piano quinquennale degli investimenti negli stabilimenti FCA in Italia (il piano, mai avviato nonostante le promesse fatte due anni fa, prevede 5 miliardi di euro di investimenti); la salvaguardia dei livelli occupazionali, cioè dei 55mila posti di lavoro negli stabilimenti italiani, e la garanzia da parte dell’azienda a non procedere con ulteriori delocalizzazioni.
Si tratta di condizioni solo apparentemente vincolanti, perché FCA è prossima alla fusione con la francese PSA (il gruppo industriale francese a partecipazione pubblica che comprende i marchi Peugeot, Citroën e Opel), con cessione del controllo del nuovo gruppo a Peugeot, in cambio di un maxi dividendo di 5,5 miliardi di euro, cifra assai vicina a quella del prestito erogato da Banca Intesa. Il governo ha inserito nella garanzia del prestito la clausola che vincola al rispetto delle condizioni anche il nuovo proprietario francese, ma è dubbio che questa clausola possa essere davvero vincolante.
Il 24 giugno scorso, recepito il parere favorevole della Corte dei Conti, il Ministero dell'Economia ha comunque dato il via libera definitivo alla garanzia pubblica sul prestito richiesto da Fca Italia a Intesa Sanpaolo.
Insomma, in un quartiere a sud di Amsterdam, dove sorge il palazzo della Loyens & Loeff, studio legale internazionale presso cui FCA ha stabilito la sede legale, si sta probabilmente brindando all'ennesimo successo aziendale e ai cospicui dividendi che, anche a spese dei contribuenti italiani, saranno prossimamente distribuiti agli azionisti.